Robinson, 7 aprile 2019
Antonia Arslan parla del genocidio armento
Ci sono date infelici che non si dimenticano. Il popolo armeno entrò da una porta secondaria del Novecento e ne uscì distrutto, semicancellato. Era il 1915. Albori di un secolo dedito, tra le altre cose, alla premeditazione. Ci sono date che non sempre riusciamo a sopportare. A volte ci dormono dentro a lungo per poi svegliarsi e irrompere improvvise nella nostra storia privata. Una foto, un oggetto, un gesto, un racconto o un verso destano la nostra attenzione ed è come se una zona del passato, fino a quel momento invisibile, rivelasse il senso di un’esistenza come non mai prima di allora. In fondo, qualcosa di analogo è accaduto ad Antonia Arslan, autrice del bestseller internazionale La masseria delle allodole, dove per la prima volta, all’età di quasi 65 anni, affrontava un argomento cardine della propria vita: la tragedia armena che investì parte della famiglia. Tutti i suoi romanzi a seguire conservano un filo di disperazione e dolcezza. Perché è vero che quel dramma prese il nome di genocidio (che ancora oggi stolti e negazionisti rifiutano di ammettere) ma è altrettanto vero che fu preceduto dai racconti di un popolo ammaliato dal proprio incanto. Storie che per lungo tempo erano state nulla e che Antonia ha orgogliosamente cercato e trovato un po’ ovunque. Per farle rivivere, per dar loro quell’indescrivibile colore che è la vita, come accade nel suo nuovo libro La bellezza sia con te (edito da Rizzoli). Quando si è accorta che la sua storia era parte di una storia più grande? «Quando una notte ho cominciato a pensare che c’era un momento nella vita dei miei familiari che mi interpellava. Era il desiderio e l’urgenza di raccontare quanto mio nonno mi aveva trasmesso, privilegiandomi tra i suoi numerosi nipoti. So che quel momento è giunto tardi, simile a un treno rimasto a lungo su dei binari morti». Cosa l’ha messo in movimento? «Un poeta: Daniel Varujan. Fu sequestrato, imprigionato, torturato e poi ucciso nell’agosto del 1915. Le milizie turche lo legarono a un albero e lo scuoiarono. Nella tasca della giacca gli fu trovato il libro delle sue poesie: Il canto del pane. Un’ode alla terra e al cielo, alla natura e a coloro che l’amano e la rispettano. Traducendole pensai al sacrificio di quell’uomo, all’oltraggio che lui e migliaia come lui avevano subito, e mi sono ricordata delle storie di mio nonno». Chi era suo nonno? «Si chiamava Yerwant Arslanian. Partì quindicenne dalla piccola città di Kharpert, nel centro dell’Anatolia, e arrivò a Venezia. Il padre lo spedì a studiare nel collegio armeno sull’isola di San Lazzaro. Qui finì il liceo, poi si trasferì a Padova alla facoltà di medicina e in seguito a Parigi per perfezionarsi in chirurgia. Vi stette per quattro anni. Conobbe Charcot, neuroscienziato e studioso di fenomeni legati all’isteria. Sebbene ne fosse attratto, alla fine scelse di occuparsi di chirurgia dell’orecchio e della gola. Diventando un eccellente specialista». Perché abbreviò il proprio nome? «Era più semplice per i documenti. In armeno “arslanian” voleva dire il figlio del leone;” arslan” invece è il leone. In famiglia fu una specie di re della foresta, obbedito, temuto e amato. Ebbe due figli e impose loro che non si parlasse mai la lingua armena». Curioso. «Credo avesse voluto mettere la famiglia al riparo da una tragedia di proporzioni enormi». Ne conosciamo le date e lo svolgimento, ma ancora oggi quel genocidio sembra sfumare nell’incertezza. «Gli storici negazionisti sostengono che non fu adottata nessuna “pulizia etnica” e che nel 1915 ormai con il mondo in guerra, due nazionalismi, quello turco e armeno, si contrapposero. E che ad avere la peggio fu quest’ultimo. Questi storici, in larga parte turchi, giustificano le deportazioni e le morti
come frutto di condizioni ambientali difficili, causate da epidemie e stenti. La verità è che tra impiccagioni, fucilazioni, detenzioni, fame e malattie il numero delle vittime armene è stato calcolato intorno a un milione e mezzo. I Giovani Turchi, così chiamati per il loro programma di rinnovamento e rottura rispetto al sultanato, animati da un furioso nazionalismo furono la causa principale del genocidio». «Fu Raphael Lemkin, un avvocato ebreo polacco che si era interessato ai massacri del popolo armeno, che inventò la parola e la definì giuridicamente». Che cosa cambiò con questa innovazione lessicale? «Le parole non sono neutre. Fino ad allora quello che era accaduto si chiamava sterminio in forma organizzata. Ma il termine “genocidio” implicava qualcosa di più forte e definitivo: un richiamo alla morte di un popolo e un appello al diritto internazionale». Ha detto che suo nonno cercò di rimuovere le tracce di quella tragedia. «In realtà ho detto che mio nonno temeva che i suoi figli provassero quello che aveva provato lui: angoscia, dolore, senso di colpa. Un suo fratello era stato decapitato. Poi, in età ormai avanzata, scelse me come la persona cui affidare la sua memoria». Lei è nata a Padova? «Nel 1938, l’anno delle leggi razziali. La mia storia è quella di una ragazza che ha avuto un’infanzia felice. Libera da preoccupazioni economiche e circondata dall’affetto. Anche quando durante la guerra sfollammo a Dolo la mia vita cambiò di poco. Ricordo un episodio di quel periodo. In casa il nonno ospitò due fratelli armeni: Hrayr e Arshavir Terzian. Erano ragazzi che studiavano al collegio armeno di Venezia. Hrayr sarebbe diventato uno dei più grandi neuroscienziati al mondo. Ho coltivato l’amicizia per quest’uomo insolito e geniale. Bisognerebbe ogni tanto ricordarsi di certe figure che, nel loro anticonformismo, hanno sensibilmente fatto progredire la ricerca scientifica». Suo padre cosa faceva? «Era medico come mio nonno. In quanto prima di cinque figli voleva che io stessa prendessi quella direzione». Fece invece scelte diverse. «All’inizio ci fu un patto tra noi. Gli dissi che avrei scelto la facoltà di medicina se fossi stata convinta di poter affrontare anche le situazioni più sgradevoli. Perciò un giorno andai ad assistere a un’autopsia. Ne uscii orripilata. Dissi a mio padre che mai avrei potuto curare o squartare dei corpi. Ci restò male». Alla fine cosa scelse? «La mia aspirazione era diventare archeologa. Fin da piccola mi ero appassionata alla lingua greca, agli scavi di quel mondo antico e sommerso così ricco di storie e di reperti da lasciarmi spesso senza fiato. Pensavo anche all’Anatolia e al mondo armeno, a tutto quello che era accaduto nelle prossimità dell’Oriente. Alle influenze ricevute con i grandi spostamenti. Alle necropoli, alle tombe spesso scavate nelle rocce e ai santuari realizzati. Pensavo a Troia e all’avventura di Winckelmann. Ma alla fine mi iscrissi a lettere antiche». Era la chiave per aprire la porta di quel mondo. «In un certo senso somigliava alla tessitura di un tappeto. Non se ne capisce l’ordito senza conoscerne i fili della storia e il contesto che lo prepara. Da questo punto di vista fu per me fondamentale Carlo Diano, filologo immenso che scrisse quel libro breve e densissimo che è Forma ed Evento. Ebbene, le lezioni di Diano si ammantavano di una conoscenza prodigiosa del greco. Seguivo le sue parole ricche di passione civile, di intuizione, parole che potevano frastornarci e alla fine però scelsi di laurearmi su tutt’altro. Feci una tesi sui mosaici alessandrini di soggetto campestre. Era il richiamo alla vecchia passione archeologica che non avevo dimenticato, a farsi di nuovo sotto». Con quali risultati? «Non ce ne furono. Il professore con cui mi laureai mi offrì, grazie a una borsa di studio, di trascorrere un periodo di specializzazione alla scuola archeologica di Atene. E poi, quasi improvvisamente, compresi che non era quella la mia strada. Che tutto quanto avevo immaginato da bambina franava miseramente davanti alla constatazione che non avevo la benché minima memoria visiva. A malincuore cominciai una vita di insegnamento». Perché a malincuore? «Mi bruciava aver dovuto rinunciare a quel mondo che mi aveva così affascinato. Ma sapevo che sarei stata una mediocre archeologa senza quelle capacità mnemoniche che sono alla base di ogni intuizione associativa. Scrissi un libro su Goldoni, feci un lavoro su Dino Buzzati, mi occupai di Alberto Savinio. E alla fine negli anni del mio insegnamento universitario cominciai a interessarmi di letteratura popolare». Era un salto rispetto a tutto quello che aveva fatto o sognato di fare. «Negli anni Settanta, quando cominciai a occuparmene, c’era ben poca roba sull’argomento. Mi appassionai al genere dopo aver letto La cieca di Sorrento, un romanzo che fin dalla prima edizione ebbe un enorme successo. Francesco Mastriani era un maestro del romanzo d’appendice, ne aveva pubblicati un centinaio e quasi tutti seguitissimi. La particolarità della Cieca era che Mastriani nelle varie edizioni aggiornò il linguaggio. Restava la trama e mutava lo stile». Questo perché? «Dietro a un romanzo apparentemente semplice si celava una costruzione linguistica tutt’altro che innocente. Perfino sofisticata, comunque insolita considerando il genere popolare. Scrissi un saggio e a seguire preparai un libro sul romanzo popolare tra Otto e Novecento visto attraverso la scrittura femminile. Lo pubblicai con un titolo piuttosto stravagante: Dame, droga e galline, uscì nel 1977 e suscitò molto interesse al punto che Umberto Eco lo adottò per i suoi corsi universitari». Galline perché? «Volevo alludere a Gramsci quando definisce Carolina Invernizio un’onesta gallina della letteratura italiana. Ho l’impressione che fosse qualcosa di più e che meritasse un giudizio critico meno impietoso. In fondo se è vero che è esistito il romanzo borghese, nondimeno ha svolto una grande funzione quello popolare. I primi pulp fiction li abbiamo lì, nel feuilleton, come nella versione rosa e di avventura o nelle tinte fosche di una Cieca di Sorrento o di una Sepolta viva. Dopotutto Emma Bovary, una delle eroine mirabili del romanzo borghese, alimentava le fantasie e i sogni con le letture più dozzinali». Lo erano davvero? «Rispondevano a uno schema che rifletteva una netta separazione tra mondo maschile e femminile. Nella letteratura dell’Ottocento, i moti dell’animo femminile appaiono difficili da comprendere, perciò li si incasella in stereotipi precisi: fragilità, scompenso emotivo, isteria restituiscono un quadro psichico prevedibile. Ma che cosa fosse la donna sotto queste manifestazioni, quale dolore reale le accompagnasse non era dato sapere». Anche il popolo delle donne era stato in qualche modo cancellato. «Se è un modo per riprendere la questione armena lo accetto. Anche se furono negazioni assai diverse». È mai tornata sui luoghi di quelle tragedie di cui parla? «Non sono una testimone diretta, non faccio memorialistica né tanto meno mi occupo di ricostruire un passato geografico che di fatto non c’è più. Racconto le storie che mio nonno mi ha lasciato in eredità. Non ho vissuto tragedie personali. E mentirei se dicessi che la motivazione sono le ferite che mi porto dentro. Non ho sofferto. Non potrei mai atteggiarmi a qualcosa che non sono. Però so che c’è un problema». Quale? «C’è una memoria collettiva che va rispettata e conservata. Anche se la mia vita è stata altra da quella tragedia, è pur sempre legata con i mille fili, sottili e invisibili, delle vite di coloro che quelle ferite le hanno avute. E allora è come se mi trovassi in mezzo alla strada senza che ci sia un riparo, un’ombra, un ristoro. So solo che devo andare avanti. Perché è la storia o meglio le storie che lo esigono». Per farsi condurre dove? «Spero verso una verità senza la quale non avremmo ragione di interrogarci sul nostro passato e sul presente. Parlavo del mio interesse per la letteratura femminile e mi viene in mente quanto nella tragedia armena si siano, anche lì, separati i destini delle donne e degli uomini». In che senso? «Fin dalle prime deportazioni di gente strappata dai loro villaggi, il destino delle donne fu in un certo senso diverso da quello degli uomini. Questi ultimi furono brutalmente uccisi, le donne brutalmente sottomesse o accompagnate verso il nulla del deserto siriano. Furono loro a resistere e a conservare il senso di un’identità che altrimenti si sarebbe smarrita. Furono loro, nella memoria difesa, la prima luce che squarciò il buio armeno».