Robinson, 7 aprile 2019
Mega intervista a Vasco Rossi
È polvere. Rossa e gialla. E poi cuori, mezzelune. Stelle. Dentro un piccolo tubo trasparente di plexiglass, dall’alto cadono lentamente verso il basso. Prima i frammenti colorati, che scendono a spirale senza mescolarsi gli uni con gli altri, poi le piccole sagome glitterate. Lui la tiene in mano, se la mette dietro la testa, ci gioca. Vasco, che cos’è questa cosa? «Questa? Beh, è una bacchetta magica!». Siamo a Bologna, nello studio dove Vasco Rossi incontra periodicamente il suo gruppo di lavoro. Tra poco ci sono sei stadi già esauriti a Milano e due a Cagliari che aspettano e le cose a cui pensare sono tante. Lui però è tranquillo. Anzi, sembra davvero felice. È appena rientrato da Los Angeles: «Sono tornato apposta per voi di Repubblica Robinson», ride, cercando di farci sentire un po’ in colpa. Non fumerà mai, neanche una sigaretta. Ma è sempre Vasco. Perché proprio Los Angeles? «Sono stato lì quasi un mese e mezzo perché era importante fare un po’ di vacanza da Vasco Rossi». Bello? «Faceva freddo e ha quasi sempre piovuto. Ci vado perché di solito fa caldo e perché qui in Italia non posso uscire». Quindi la cosa più bella per te è... andare al supermarket? «Esatto. Mi piace un casino andare al supermarket: scegliere le cose, toccarle. Per me, oltre a quello, andare al cinema e andare a cena sono dei veri lussi». Avere gli occhi della gente puntati addosso non è piacevole? «Magari all’inizio sì, i primi anni. Ma poi ti dà un po’ di ansia: ti senti sempre osservato e ogni persona che vedi sai che può dirti qualcosa, che va benissimo, però prova a immaginare una situazione così a ciclo continuo. Il bello del successo è che ti conferma che quello che fai vale. All’inizio cerchi anche la celebrità, perché quando non la si ha si pensa che sia fantastica, come una giostra. Solo che quando la giostra non si ferma C’era un periodo in cui dicevi di voler tornare a essere un artista di nicchia e oggi pare sia un po’ nell’aria: Francesco De Gregori ha fatto venti date in un teatro di 230 persone. A te piacerebbe? «Guarda, quella cosa lì per un artista è fantastica e anche io lo desidererei. Anche Bruce Springsteen la sta facendo. Sia chiaro, fare gli stadi mi piace ma mi piacerebbe anche poter tornare a quella dimensione». Sarebbe stato bello vederti cantare “Generale” ospite da De Gregori. «Sarebbe stato bellissimo. Ecco, questo è uno dei motivi per cui mi piacerebbe abitare a Roma o a Milano: puoi fare cose così e poi torni a casa. Invece io devo prendere la macchina, andare, fermarmi in hotel: io soprattutto odio andare nello stupido hotel perché non posso uscire!». Sei volte San Siro… Credo non abbia un precedente nella storia: neanche i Beatles hanno riempito sei stadi di fila della stessa città. «Penso sia dovuto al fatto che io racconto un po’ quello che il mio pubblico ha dentro in maniera sincera, onesta e anche spudorata se vuoi: debolezze, frustrazioni… c’è qualcosa che condividi. Non è “mal comune mezzo gaudio": è che se una debolezza pensi di averla solo tu soffri moltissimo perché ti senti solo. E anche sbagliato». «Certo. Ho scritto quella canzone perché l’esclusione l’ho provata sulla mia pelle. Io ho sofferto moltissimo questa sensazione, forse anche perché quando sono andato a Modena in collegio a 13 anni ero considerato “il montanaro”, quello di serie B, che “veniva giù con la piena"». «Perché a Zocca dopo le medie non c’erano più scuole. Addirittura, qualche anno prima di me, per far studiare i bambini li si mandava in seminario. Io invece sono finito dai salesiani, quelli con le camerate gigantesche dove ti svegliavano alle sette con il battito di mani; se non ti svegliavi davano delle botte sulla testata di ferro del letto che ti faceva tremare tutta la testa: un freddo cane, ti alzavi e ti lavavi con l’acqua gelata perché quella calda non c’era, poi la preghierina al mattino, quella alla sera… Cinque ore di studio anche al pomeriggio, davanti al prete, in silenzio, poi mezz’ora di ricreazione in cortile dove mi ricordo che si giocavano tre o quattro partite contemporaneamente, con quattro palloni: un casino d’inferno! Non so neanche come cazzo facessero: io non giocavo. Il calcio non mi piaceva, preferivo il biliardino. Alla fine due fischi: tutti in fila in ordine d’altezza. Un fischio ancora: silenzio totale. Se tu stavi dicendo a qualcuno: “Ehilà!” mentre fischiavano dovevi andare in punizione. Quando mangiavamo invece avevano i campanelli. Il prete, a un certo punto, faceva” ping!” e tutti dovevano stare zitti. Chiaramente c’era sempre qualcuno che stava gridando e così anche lì finivi di nuovo in punizione». «Bisognava andare davanti all’ufficio del prete-preside e aspettare che venisse a farti la ramanzina. Gli altri, intanto, alle nove di sera erano tutti a letto. Io in quel periodo mi ero totalmente chiuso, non mi sono fatto neanche un amico nuovo. Per fortuna c’era un ragazzo che conoscevo, anche lui di Zocca, e Sergio Silvestri, con cui suonavo la chitarra. Quella è stata la mia salvezza: ci lasciavano due volte la settimana un paio d’ore per esercitarci, a me e Silvestri». Quindi è così che hai imparato a suonare la chitarra? «No, andavo già da un maestro. La prima volta che sono arrivato giù in città è stato perché avevo vinto un concorso di voci nuove, si chiamava l’Usignolo d’Oro». «Quando ho vinto sono rimasto allibito anche perché c’era stata una ragazzina, prima di me, molto brava, che aveva preso 95 voti su 100, quasi il massimo quindi. La giuria era fatta di bambini che con le palette davano i voti da 0 a 10. Mi dicevo:” È chiaro che ha già vinto lei”. Ho cantato la mia canzone e mentre uscivo di scena, però, sentivo i voti:” 10, 10, 10, 10!"’. Alla fine è stato 100 su 100!».
«I premi erano bellissimi: c’era addirittura una bicicletta. Io andavo giù di testa!». «Il maestro, io poi l’avevo interpretata. Si intitolava in occasione di Modena Park. Era un po’ come chiudere un cerchio: è stata una grande soddisfazione «Di quel periodo sì, mi ricordo tutto. Anche perché l’anno dopo sono andato alle selezioni dei vari paesi intorno a Modena perché ero stato il vincitore, la star, capito? A quel punto pensavo già di essere un cantante, non capivo neanche perché mi mandavano ancora a scuola. Mi sentivo come Gianni Morandi o Little Tony!». «Una volta non me la sentivo di cantare: a quei tempi bisognava arrivare all’acuto ma non stavo bene, non avevo la voce e allora l’ho detto a mio padre che mi doveva accompagnare. Lui non mi ha neanche ascoltato. Mi fa: “Adesso te lo dice il maestro se puoi cantare o no”. I bambini non scherzano, sono serissimi. Ero convinto che il maestro avrebbe capito e avrebbe detto: “No, oggi non cantare”. Invece arrivo e mi fa: “Ma no, non ti preoccupare”. A quel punto rimasi profondamente deluso: se non ti puoi fidare del maestro di canto di chi ti puoi fidare? Cantai la canzone, non ci arrivai…». «Non se ne accorse nessuno. Ma me ne accorsi io: ero così amareggiato che da quel momento smisi di cantare». «Sì. Ho continuato ad andare a lezione di chitarra ma basta, non cantai più. Qualche tempo dopo andavo con un gruppetto che faceva anche liscio e cantavo le canzoni italiane, ma solo per hobby, tanto che quando avevo ancora 22, 23 anni, se mi avessero detto che avrei fatto il cantante non ci avrei mai creduto. Comunque sono così anche adesso». «Non posso deludere me stesso: non importa se per gli altri va bene. Sono talmente autocritico che o le cose vanno come dico io o ci resto malissimo. Sono così di carattere ma probabilmente anche perché sono cresciuto negli anni Settanta con il mito dell’autocritica, della spontaneità, della sincerità. Infatti quando qualcuno critica le mie canzoni mi viene da ridere perché tanto i difetti li ho già pensati tutti io: se decido di cantarle è perché almeno per me sono perfette. Non è facile che passino indenni il mio esame: sono io il primo fan e quindi sono anche quello più critico, tanto che a volte non mi sopporto. Quando scrivo un pezzo so benissimo dove arrivo, cosa può dare a chi lo ascolta». 26 anni e anche un po’ per caso. Come raccontavo prima avevo continuato con la chitarra mentre studiavo all’università. Che poi il mio metodo di studio era: otto ore al giorno per una ventina di giorni per preparare l’esame e poi una volta passato non facevo più niente per un mese o due». «Sì, non me ne fregava niente di studiare quelle materie ma dovevo essere in pari con gli esami per prendere il “presalario": ti davano la bellezza di 500mila lire. Per quella cifra avrei fatto qualsiasi cosa. L’ho preso per due anni: la prima volta che vidi tutti questi pezzi da 50 non ci credevo, ci potevo comprare quattro o cinque chitarre!». «Invece comprai una moto: una Honda 750 usata che è stata la mia libertà. Uscivi, prendevi la moto, andavi. Senza casco. Oggi ti arriva una ragazza e non hai il casco e che fai: perdi l’occasione? Sono d’accordo sul fatto che i giovani vengano protetti anche da se stessi e quindi va bene l’obbligo del casco finché sei piccolo ma quando uno è maggiorenne dovrebbe poter fare quello che vuole della sua vita… poi, certo, se devi andare in tangenziale te lo metti ma poi dovresti poterti fare un giro come ti pare. Va beh, queste sono tutte le mie battaglie». Ma tuo papà era contento di questo figlio che prendeva il “presalario”? fare economia e commercio. Già prima mio padre mi aveva costretto a frequentare ragioneria. A quei tempi facevo parte di un collettivo teatrale e per me era una cosa molto importante perché leggevo Eugène Ionesco e facevamo teatro sperimentale. Il Dams, che nasceva proprio quell’anno lì, aveva bisogno di un gruppo che aiutasse chi si iscriveva a fare i primi esercizi: quelli di respirazione e così via. Per cui ci avevano messo a disposizione una sala e noi avevamo questo compito qua, tanto che ci hanno fatto addirittura una proposta: vi potete iscrivere direttamente al Dams senza fare la quinta. Arrivo a casa, vado da mio padre, contento come un pazzo e glielo dico. E lui mi fa: “Dams? Che cos’è il Dams? Tu intanto ti prendi il tuo bel diploma da ragioniere e poi ne riparliamo"». «Lì non c’è stato verso. Così ho portato a casa il diploma e gli ho detto:” Adesso però il ragioniere lo fai te: io non ho nessuna intenzione di farlo”. Pensa che mi aveva già trovato un lavoro in una banca vicino a Zocca e io non l’ho accettato; mia zia non ci credeva! Allora gli ho detto: “Adesso mi iscrivo al Dams”. Ma niente. Mi fa: “Non se ne parla. Se vuoi fai economia e commercio”. A quei tempi non c’era molto spazio per la discussione.” Se no vai a lavorare”, replicò lui. E io:” Vabbè, hai vinto tu, allora faccio economia e commercio”». Il silenzio
che potevo farcela non sopportavo più di andare avanti e così una sera sono andato a casa e gli ho detto: “Allora, senti, se devo fare la vita che vuoi tu, basta, piuttosto vado a lavorare perché questa roba qua a me non mi interessa, non mi interessa proprio”. Alla fine mi ha lasciato cambiare». «Volevo fare lo psicoanalista, anche per capire un po’ che cazzo c’avevo nella testa. Prendevo tutti 30 perché mi piaceva moltissimo ma nel frattempo è arrivata l’idea di fare una radio libera e lì ho visto un treno che passava e ho capito che era la mia occasione e che non si sarebbe mai più ripresentata, così l’ho preso. Fare il deejay era bellissimo, potevi comunicare direttamente, ascoltavi un sacco di musica…». Chi ti piaceva? «Guccini, Dalla, De André, De Gregori, Bennato. Non mi piacevano invece quelli più fricchettoni come Claudio Rocchi: mi sembravano già in ritardo. Non mi piaceva la parte mistica, quando diceva cose tipo” quando stai mangiando una mela tu e la mela siete parti di Dio”. Ah, e poi anche Battisti, anche se non potevi dire che lo ascoltavi perché altrimenti ti davano del fascista e dello stupido perché era considerato leggero, non impegnato. Ma io me ne fregavo perché invece i testi, e la musica, erano fenomenali. Anche quando c’erano Lotta Continua e Potere Operaio a me facevano un po’ ridere: fai lo studente, quando hai finito di studiare vai a casa, ti fai i cazzi tuoi e invece no, facevano la Lotta Continua e Potere Operaio? Erano tutti studenti, di operaio non ce n’era uno…». Però non eri apolitico. «No. Io ero anarchico. Mi piacevano gli Indiani Metropolitani, quelli che facevano teatro per la strada, quelli che prima volevano migliorare sé stessi perché il concetto anarchico era quello dell’autodeterminazione. Non c’è bisogno della polizia perché l’individuo è in grado di governarsi da solo, non ha bisogno di altri che gli dicono cosa deve fare. L’uomo anarchico, in linea ideale, è quello che non invade mai la libertà dell’altro. Pensa che a 18 anni, quando ho fatto i tre giorni, è arrivato uno a chiedere chi voleva entrare nei parà e io ho fatto domanda perché volevo vedere se avevo abbastanza autodisciplina per buttarmi giù da un aereo. Sapevo che c’erano un sacco di fascisti lì ma non me ne fregava niente: volevo vedere se ero in grado di farlo». Però poi invece il militare hai cercato di non farlo. «Intanto ai tre giorni hanno detto che ero sano come un pesce e mi hanno preso ( ride, ndr). Poi ho fatto l’università e ho rimandato, poi c’è stata la radio e a quel punto è arrivata la cartolina ma io davvero non potevo fare il militare perché se no perdevo il famoso treno. Per me era questione di vita o di morte, non avevo altre possibilità». E allora? «E allora sono andato a casa da mio padre e gli ho detto:” Posso fare due cose: o mi dichiaro gay o dico di essere drogato"». E lui? «Boh, mio padre alla fine aveva una fiducia in me che guardandomi adesso non so proprio come facesse ad averla: a me sembrava di essere una mina vagante. Fatto sta che sono andato al Sert per farmi segnalare per abuso di metadone ma io non mi facevo proprio di niente, non avevo mai provato le droghe. Figurati che la prima volta che mi sono fatto uno spinello, e allora lo si faceva in gruppo, tiro ma non sento niente. Poi mi guardo in giro e vedo che tutti fanno gli sconvolti. Ero convinto facessero finta, che mi prendessero in giro. Così non ho più preso niente. Solo un bel po’ di anni dopo ho riprovato». E cos’è successo? «A quel punto ha funzionato di più. L’ho fatto però non in maniera fine a sé stessa ma sempre con quell’idea di ricerca interiore che dicevo prima. L’idea era quella di “allargare l’area della coscienza”, come dicevano i vari Ginsberg e Kerouac». In Italia però certe cose non si potevano dire. «Io qui comunque vorrei dire un paio di cose. La prima è che non ho mai inneggiato all’uso di droghe nelle canzoni. Ho raccontato un mondo ma bisogna fare una distinzione tra l’artista che racconta e i mass media: l’artista racconta, non vuole convincere nessuno, i media invece ci convincono a fare certe cose. Molti messaggi sono sbagliati, falsi, irraggiungibili, eppure oggi nessuno più mette in discussione i media mentre un tempo c’era più attenzione. Ci sono sostanze legali molto più pericolose di sostanze ancora considerate illegali ma nell’Italia attuale fare discorsi antiproibizionisti è forse ancora più difficile Hai scritto alcune canzoni che secondo i canoni della musica si potrebbero definire perfette: una di queste è “Vita spericolata”. Come è nata? «Sì, diciamo che è tonda col buco. Mi è venuta fuori così perché io sono l’Italia (ride, Sono quell’Italia lì e quando scrivo, scrivo quello perché lo sono. E dato che non medio con la razionalità, dico quello che mi viene dal profondo dell’inconscio. Io ascolto e riascolto la musica e poi aspetto che arrivi la frase». A proposito, come è venuta fuori la prima frase di “Vita spericolata”? «Era arrivato Tullio Ferro ( musicista e compositore, suonava nella band new wave Luti Chroma, con un paio di musiche veramente belle e un’aria un po’ così, di superiorità, perché lui era molto “underground”. Il problema è che loro si divertivano moltissimo quando suonavano ma molto meno quelli che andavano ad ascoltarli, io invece ho sempre amato comunicare con il pubblico. Beh, insomma, questa musica era talmente bella che volevo metterci un testo all’altezza. Non volevo fare una cosa, come si dice,” di mestiere”. Io odio le cose di mestiere. Se mi metto qui adesso te la posso scrivere una canzone, anche in pochi minuti, ma io non farò mai una canzone in questo modo, capisci? Mi vergognerei troppo. Il problema è che quel testo proprio non mi veniva, finché un giorno sono in Sardegna e mi salta un concerto. Pioveva, ero dentro una macchina e guardavo il campo sportivo. Metto la musica e la riascolto: io ascolto una musica così tante volte, per mesi e mesi, finché non arrivo a un punto in cui è come se la musica nascesse da me. Per cui se una canzone non mi stanca a me, vuol dire che funziona. E a un certo punto mi viene una piccola frase: “Voglio una vita”. “Voglio una vita, cazzo!”. Come la voglio la mia vita? “Voglio una vita spericolata”. E da lì mi è venuto tutto il resto:” Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così, voglio una vita come quella dei film, voglio una vita come Steve McQueen”. Il concetto di Steve McQueen era importante perché la vita normale è sempre piena di tempi morti, invece nei film non c’è mai un tempo morto. Io volevo una vita tutta fatta di quegli attimi che ti danno felicità. E poi esprimevo quei concetti che allora sentivano in molti, come per esempio il rifiuto del posto fisso, che adesso se lo dici è un insulto (ride, «Allora, è chiaro che ero andato lì per scandalizzare. Però devo dire che anche in questo caso non c’era nessun accenno alla droga o alle sostanze stupefacenti nel testo. Anche l’anno prima, con Vado al massimo, nella mia testa ero come Fred Buscaglione o come Antoine che cantava” tu sei bello e ti tirano le pietre": da piccolo lo vedevo sempre il festival e avevo in mente quei personaggi». E la storia del microfono di” Vado al massimo”? «Quella è andata così: devo premettere che ho fatto la gavetta sui palchi dei festival dell’Unità e a ogni concerto imparavo qualcosa. E poi vedevo Mick Jagger e mi sono accorto che lui non guardava mai nella telecamera, così quando andavo in televisione e mi dicevano” guarda qui” io dentro di me pensavo:” Manco per il cazzo!”. Avevo imparato che sul palco se fai una cappella devi fare finta di niente. Se ti cade per terra un microfono e lo raccogli sei uno sfigato che ha sbagliato, se non lo raccogli sei una star: è una cosa subliminale ma non c’è niente da fare, funziona così. Mi ero proprio allenato per disimparare il riflesso condizionato: una volta ho inciampato in una spia stavo cadendo ma mi sono buttato dall’altra parte e sono volato giù dal palco. Ho preso una botta che mi mancava il fiato ed ero tutto insanguinato. La musica andava avanti, sono risalito e ho finito il concerto: applausi! Poi sono andato all’ospedale…». poi prendo il microfono dall’asta e vado verso le prime file per fare un po’ di scena. Intanto pensavo” adesso come cazzo faccio?” perché un conto è se per rimetterlo a posto fai “tac” come nei film ma se sbagli e stai lì che non riesci a infilarlo nel buco che figura fai? Allora ho detto” va beh, me lo infilo in tasca e poi lo do a quello che viene dopo di me”. Solo che il filo era troppo corto, vola via il microfono e io che avevo imparato, faccio finta di niente e non mi giro. Intanto sento una gran botta e delle voci che urlano” tu sei matto!” “ma se si rompe il microfono!”. E chi se ne frega, io ero incazzato nero e non ero mica lì per vincere: mi sembravano tutti matti… Mi sembravano come bambini, tutti che si guardavano i vestiti “vado bene così?”. Io li guardavo come se fossero matti e loro mi guardavano come se fossi matto io. Comunque l’obiettivo era raggiunto: la canzone era buona, avevo scandalizzato i perbenisti e quelli che guardavano il festival per divertirsi come facevo io, avevano avuto la loro bella soddisfazione». «Scherzi? I miei concerti erano una guerra. Una volta al festival rock di Modena litigai con alcuni che facevano gli asini e mi insultavano, allora sono sceso giù dal palco continuando a cantare: camminavo e vedevo le ali della folla che si aprivano perché quando ti vedono convinto si scansano tutti finché ho preso per il collo uno, poi uno della sicurezza ci ha separati e mi ha portato via». A Sanremo con” Vita Spericolata” arrivasti penultimo, l’album” Bollicine” in cui è contenuta superò il milione di copie vendute in un anno. E anche “Bollicine” è rimasta nella storia. «Quella è una canzone sulla pubblicità. Negli anni ’ 70 eravamo convinti che fosse uno
dei grandi mali e, a dire la verità, lo sono ancora. Perché crea modelli e messaggi sbagliati e crea bisogni che non ci sono. Con Berlusconi è diventata addirittura santa. E allora io vai “con Coca Cola chi Vespa mangia le mele” che a me aveva fatto girare le balle perché usava quel linguaggio nonsense mutuato dal teatro di avanguardia. Venendo proprio da lì a me questa cosa dava fastidio e allora ecco che ti scrivo “chi non Vespa più e si fa le pere"». Cosa dobbiamo aspettarci per questi nuovi concerti? «La mia idea è questa: la disperazione che c’è oggi in Italia io la sento. Poi magari mi sbaglio, la maggioranza della gente è felice ma di sicuro c’è una minoranza come me che è molto preoccupata. C’è solo una cosa che io posso fare per combattere la disperazione: suonare, portare della gioia con la musica. Almeno per una sera, che lo so, non è molto, ma è meglio di niente. La musica per me è sempre stata una consolazione, la musica ci salva sempre». Lo diceva anche Lou Reed: la vita di molti è stata salvata dal rock’n’roll. «L’anno scorso dopo Modena Park avevo pensato di smettere perché dopo che hai fatto un concerto così, che cosa puoi fare di più? Tanto vale chiudere lì. Però invece ho deciso di ricominciare come se fossi ritornato all’inizio. Ringrazio tutti quelli che sono venuti: un pubblico intelligente, maturo, altroché sbandati, sconvolti. Oppure sì sbandati, sconvolti ma quando ci crediamo le cose le facciamo bene perché fare bene le cose è importante. Vale per tutti: io cerco di fare bene il concerto, tu se fai il pizzaiolo fai bene la pizza». «Nei concerti dell’anno scorso avevo deciso di partire dalla felicità, aprivo con Cosa succede in città: “Guarda lì, guarda là/ Che confusione” ( canta). Quest’anno parlando di disperazione di sofferenza è chiaro che uno dei temi sarà l’esclusione». E quindi “Mi si escludeva”, di cui parlavamo prima non potrà non esserci. «L’immigrazione è un fenomeno complesso: io la capisco la paura per il diverso. Ce l’ho anch’io, come tutti, ma bisogna andare oltre il rifiuto. Attraverso il ragionamento bisogna trovare regole comuni e il modo di convivere. Questo pensiero che adesso domina fa paura». Ed escludere non è proprio la cosa migliore come tu stesso hai sperimentato… «Quando ti senti escluso è una sensazione terribile. Bisogna mettersi in quei panni. Se uno fugge da un luogo ha già un problema e tu cosa fai, lo criminalizzi? Questo per me è sempre il modo sbagliato. Ma attenzione io non faccio politica perché la politica non la devo fare io e odio i discorsi da bar. Però credo nei principi, nell’etica, nella complessità del ragionamento. Ecco credo che la politica serva a questo, a fare dei ragionamenti che portano alla soluzione dei problemi. Dobbiamo essere meglio del nostro istinto». So che leggi Spinoza e una volta hai citato questa sua frase:” Chi detiene il potere ha sempre bisogno che la gente sia affetta da tristezza”. «Era proprio l’incipit di alcuni concerti che ho fatto. Il potere in questo modo giustifica se stesso». È vero che hai letto tutta La ricerca del tempo perduto di Proust? «Sì. Era un periodo in cui sentivo proprio il piacere di leggere. Mi ricordo le circa cinquanta pagine in cui raccontava il modo in cui si svegliava: scrive in un modo così straordinario che ci entri dentro e non riesci più a smettere. Ho cercato di leggere Lacan ma non ci sono riuscito e allora ho letto Recalcati che mi ha aiutato a capirci qualcosa. Prima ho letto Jung e Freud». «Mi intrigano le visioni del mondo. Infatti il primo libro di filosofia che ho letto è stato Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer e sono rimasto incantato. Sai ho iniziato perché dovevo colmare le lacune della mia ragioneria e sono sempre in questo viaggio fatto di domande ma dovevo ricostruire un senso della storia del pensiero». «Trasformare tutte le cose che mi succedono in canzoni meravigliose. Ci vuole anche un po’ di magia. E poi mi piace la bacchetta magica». Stelline, cuori, mezzelune si mescolano. Sono come diamanti nel nostro cielo. Brillano nella notte che abbiamo intorno».