la Repubblica, 7 aprile 2019
Non si finisce mai di giocare a Fortnite
Combatto, muoio, ricomincio da capo. A ciclo continuo. Finché le partite da decine diventano centinaia, le ore si accumulano superando le 50 complessive, la mia abilità si affina e con lei si allunga il tempo di sopravvivenza nelle partite. Si misurano in minuti, cinque, dieci, venti massimo: un concentrato di sparatorie, fughe, agguati, ricerca di posti sicuri dove curarsi. A volte arrivo alla fine, l’unico nell’arena ancora in piedi, il vincitore della “battaglia reale”. Lo schema di fondo è lo stesso per tutti i videogame del genere “battle royale”, Fortnite in testa: da 60 a 100 giocatori disarmati si paracadutano su un’isola. Nei primi secondi bisogna cercare freneticamente pistole, fucili e mitra sparsi nella mappa, sperando di trovare le armi che si sanno usare meglio. In seguito per restare vivi, mentre l’area via via comincia a restringersi con i partecipanti che vengono in contatto, meglio evitare gli scontri inutili. Insomma, The Hunger Game di Suzanne Collins pubblicato nel 2008, a sua volta scopiazzato da Battle Royale di Koushun Takami del 1999. Venti anni dopo quel romanzo ha dato la forma a uno dei fenomeni sociali più rilevanti su console, pc e smartphone con oltre 300 milioni di persone che ci giocano. Iniziato in sordina nel marzo del 2017, sta trasformato l’intero settore dei videogame. Costi di produzione relativamente bassi, 20 milioni di dollari circa, e risultati straordinari. Trama e narrazione? Roba vecchia. PlayerUnknown’s Battlegrounds (Pubg), il primo, il più cruento e realistico, è fatto anche di attese e appostamenti. Poi è arrivato Fortnite che, malgrado la sua grafica da fumetto, può farsi complicato: l’unico nel quale si costruiscono strutture di difesa o rampe per raggiungere luoghi soprelevati. Pieno di giocatori di ogni età, compresi quelli di alto livello che fanno squadra e stragi, alla fine i match si trasformano in un festival di architetture prive di senso. Sorgono in una manciata di secondi e sempre in pochi secondi vengono distrutte. Apex Legends, l’ultimo arrivato, è fantascientifico, frenetico, tecnico. Si muore facilmente, si uccide difficilmente. Soprattutto, si è per forza in squadre da tre formate in automatico dal sistema. Arrivare alla fine dipende da come si collabora con i compagni. Mentre il principe Harry se la prendeva con Fortnite, stavo giusto cercando di sopravvivere in una partita. «È stato inventato per creare dipendenza, per tenerti davanti a un computer il più a lungo possibile», ha detto. «Non dovrebbe essere permesso». Mi chiedo: farò parte anche io della categoria di dipendenti da “battle royale” o si è dannati solo da adolescenti (dannati per definizione)? Dopo dieci minuti e 43 secondi la mia squadra viene spazzata via, un onorevole terzo posto. RedSpawn, americano, 35 anni circa stando alla voce, si lancia però in insulti: «Dannati idioti!», urla. Vai a capire se ce l’ha con noi o con chi lo ha crivellato di colpi. Nascosti dietro un avatar, tanti azzardano atteggiamenti da bulli. Tornando alle affermazioni del “ribelle” della famiglia reale britannica, chissà se ha mai giocato a un videogame del genere o si è fermato invece alla presa in giro beffarda contenuta nel manifesto di Brenton Tarrant, l’assassino di Christchurch. Ma su una cosa ha ragione, in senso lato: è in corso una lotta fra colossi dell’intrattenimento, dalla tv allo streaming fino alle console, per conquistare il tempo delle persone. E i “battle royale” se la stanno cavando bene. A tal punto che la dirigenza Netflix, che con i videogame ha poco a che fare, li ha indicati come avversari temibili. Il bello? Ci sono riusciti proponendo non una nuova forma di narrazione interattiva, paragonabile per profondità alle migliori serie tv, ma un’eterna ripetizione della stessa partita variata nei dettagli ad intervalli regolari. Tutti possono giocare, pochi primeggiano. E sono gratis. «Il punto non è l’oggetto della dipendenza ma la persona che cade nella dipendenza e i danni che questa provoca», spiega pacata Ornella de Rosa docente di Storia del gioco pubblico presso l’Università degli Studi di Salerno e presidente dell’Osservatorio Internazionale sul Gioco. «Di dipendenze ce ne sono tante ed alcune socialmente accettate. Eppure quando si bada solo al lavoro, anche con un Nobel alle spalle, magari si trascurano i propri figli e i danni possono essere gravi». Insomma, il troppo è troppo in ogni caso quando sostituisce l’esistente. «Che sia in corso una battaglia per il nostro tempo libero è ovvio», conclude de Rosa. «E giochi così veloci e in apparenza gratuiti vincono». L’aver conquistato tanto spazio nella vita delle persone ha un valore: tre miliardi di dollari l’anno grazie alla vendita di balletti e abbigliamento digitale. Nessun vantaggio nel gioco, ma sulla spinta di quanto sfoggiato dagli youtuber le persone comprano. Miliardi di dollari in “fuffa”. Era già accaduto in passato, mai su scala simile. Anche questo, segno dei tempi.