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 2019  aprile 07 Domenica calendario

Rischiamo migliaia di sbarchi dalla Libia

L’incubo italiano è che la crisi libica si trasformi in una «guerra civile a bassa intensità». Lunga e incerta. Che occupi le forze di Tripoli, sguarnendo le coste da cui partono i barconi. È questo il fantasma che si aggira tra Palazzo Chigi e la Farnesina: una nuova ondata migratoria favorita dalla stagione estiva. Per far fronte a questo scenario, Giuseppe Conte ha chiesto alla diplomazia di organizzare una telefonata con il generale Haftar entro 72 ore, senza trascurare i contatti costanti con Serraj. E sempre per questa ragione, il premier lavora a un bilaterale con Emmanuel Macron a margine del vertice Brexit di mercoledì a Bruxelles. «È molto importante che cessino le operazioni militari che contribuiscono ad accrescere il livello di destabilizzazione», affermava ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero rientrando dal G7 a Dinard, in Francia. Il capo della diplomazia italiana sottolinea l’importanza del comunicato firmato dai colleghi, un inedito appello condiviso al «senso di responsabilità» rivolto ad Haftar, al quale si sommano le dichiarazioni dello stesso tono in arrivo da Mosca. Oltre alle pressioni diplomatiche, però, non resta molto altro. La sensazione del governo, infatti, è che in questa fase la comunità internazionale non abbia a disposizione molte armi per fermare l’avanzata di Haftar. In un quadro così incerto, a farne le spese sarebbe soprattutto l’Italia. Innazitutto per il rischio di una nuova emergenza migranti, che difficilmente Roma potrebbe gestire tenendo fede allo slogan dei “porti chiusi”. In queste ore la cabina di regia sulla Libia, installata a Palazzo Chigi da mesi, lavora a flusso continuo, avvalendosi anche dei report provenienti dall’intelligence. La sensazione dei diplomatici e dei servizi è che Haftar non abbia la forza di imporsi sulle altre milizie. Con il rischio che passato” l’effetto sorpresa” sfruttato fin qui dal generale, un contrattacco delle altre fazioni possa cronicizzare l’attuale crisi, trasformarla in un pantano e bloccare il dispositivo per frenare le partenze dei migranti messo in piedi grazie al sostegno italiano ed europeo ai tempi del governo Gentiloni. Senza personale sulle coste e motovedette in mare, fornite proprio da Roma, il pericolo che agita l’esecutivo è di tornare al 2015, l’anno degli sbarchi di massa e delle stragi nel Canale di Sicilia. Tanto più che proprio con la stagione estiva alle porte, Palazzo Chigi ha imposto improvvidamente il ritiro della missione navale Ue Sophia. E senza tralasciare il timore che eventuali grandi numeri nei flussi aumentino il rischio di infiltrazioni terroristiche. L’Italia, dunque, non può che continuare a sostenere gli sforzi dell’Onu, con l’obiettivo di salvare la conferenza nazionale libica in programma a metà aprile e ora a rischio: se saltasse, è il timore, andrebbe in frantumi il processo verso elezioni democratiche, sul quale l’Italia aveva puntato tutto per stabilizzare definitivamente la regione. Non a caso, Conte ha sentito ieri il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, sostenendo la road map per la pacificazione. Una rete diplomatica allargata anche agli altri attori, Francia ed Egitto compresi: in assenza di prove contrarie, la nostra diplomazia crede agli sforzi degli storici sponsor dell’uomo forte della Cirenaica volti a frenare l’escalation. Ma con la Francia resta comunque la competizione sul controllo della Libia e delle sue risorse energetiche. Al momento – spiegano nel governo – l’escalation non provoca particolari timori per gli interessi dell’Eni ( che comunque ha evacuato il suo personale presente nella regione) visto che il cane a sei zampe già opera in alcune zone sotto il controllo di Haftar e conta sul sostegno della popolazione locale. Certo, il generale resta un uomo legato a Parigi. Ma in queste ore Roma spera che aver intensificato da mesi i rapporti con lui renda più semplice la mediazione. E poi c’è la carta Usa. Fin dal suo insediamento, Conte ha cercato il sostegno di Trump per bilanciare la presenza francese in Libia. Dall’inizio della nuova crisi, la Casa Bianca si è limitata a lanciare solo timidi segnali: a Palazzo Chigi, ora, si guarda a Washington cercando di scorgere segnali di un ritrovato attivismo statunitense.