la Repubblica, 7 aprile 2019
Che vuole Haftar
«Bismillah al-Rahman al-Rahim»: così il generale Haftar ha esordito nel comunicato audio con cui il 4 aprile lanciava la sua offensiva per conquistare la capitale Tripoli: Nel nome di Dio, il più gentile, il più misericordioso, e continuava: «Oggi rispondiamo alla chiamata della nostra gente, nella nostra capitale». Un gesto problematico in condizioni normali, ancora di più nel giorno della visita del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, in Libia per contribuire a organizzare la conferenza di riconciliazione nazionale prevista a Ghadames la settimana prossima. Khalifa Haftar ha mostrato i denti, ed è andato alla conta, marciando su Tripoli. Ma l’uomo forte della Cirenaica in queste ore ha dimostrato di non essere forte come sembra. Al momento il sedicente Lna, un’alleanza traballante di varie milizie di interessi tribali, religiosi e locali attorno a un nucleo di forze più tradizionali compromesse dalle componenti salafite, è stato respinto dalle forze militari fedeli al governo di Serraj al Checkpoint 27, punto di accesso strategico tra Tripoli e Zawhia, le forze leali a Serraj hanno catturato 128 uomini di Haftar, ma il generale dichiara di non avere intenzione di desistere. Nato ad Ajdabiya – Libia orientale – settantacinque anni fa, Haftar è stato un uomo chiave del regime di Gheddafi, inviato dal rais in Ciad negli anni 80 fu catturato con 400 dei suoi uomini. Rinnegato dal regime si unì al Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia, un gruppo sostenuto dalla Cia. Venne rilasciato, trasferito dagli americani negli Stati Uniti, dove passò un ventennio vivendo in Virginia. Haftar è tornato alla ribalta nel 2014 quando, a tre anni dalla rivoluzione ha lanciato l’operazione Dignità, accreditandosi come l’unico attore in grado di proteggere la Libia dalla minaccia islamista e costruendo una rete di alleanze internazionali: Emirati, Egitto, Francia e Russia che hanno tollerato e spesso incoraggiato i progetti del generale Haftar condividendone la politica anti-islamista (Emirati, Egitto) e vendendo armi al suo Esercito Nazionale (Russia). L’iniziativa militare di Haftar di queste ore, è dovuta in gran parte al silenzio della comunità internazionale durante le sue precedenti operazioni, inclusa la sua recente espansione nella Libia meridionale «dipinta come sforzo per espellere terroristi dal sud della Libia – scrive Tarek Megersi, ricercatore per lo European Council on Foreign Relations -. L’esercito libico si è mosso per controllare i giacimenti di petrolio el-Sharara ed el-Feel della Libia, che insieme producono vicino 400.000 barili al giorno. Haftar ha ingaggiato forze locali (incluse quelle che sorvegliavano i giacimenti petroliferi) con la promessa di una divisa e uno stipendio». In più ha distribuito una valuta libica parallela (appoggiato dalla Russia) farina gas e petrolio ai locali, che si sentivano abbandonati dal governo centrale, cooptando milizie e capi tribù. La speranza era fase lo stesso in Tripolitania e indurre gli attori locali e i governi stranieri che hanno interesse in materia di sicurezza e di energia – e quindi ad una Libia più stabile – ad accettare di concentrare il potere nelle sue mani. Senza incontrare troppe opposizioni, senza troppo spargimento di sangue. A oggi però l’ora della vittoria per il generale sembra non essere ancora arrivata. La marcia su Tripoli ha provocato una solida contro-mobilitazione delle forze libiche, tra cui le decisive forze militari di Misurata e Zintan, schierate in difesa della capitale e a supporto del governo di Serraj. A complicare la compagine delle forze in campo, si stanno muovendo anche le agende politiche di emiratini e sauditi. La marcia di Haftar a Sud e su Tripoli è stata preceduta da tentativi di negoziazione falliti ad Abu Dhabi e da una visita del maresciallo a Riad. Proprio dall’Arabia Saudita proviene un gruppo salafita rigorista: i madhkhalisti, che compongono l’esercito di Haftar. Il madkhalismo è un ceppo di salafismo basato sugli insegnamenti del religioso saudita, Rabi al-Madkhali, che ha emanato una fatwa a sostegno di Haftar. Un principio fondamentale del movimento è quello di evitare elezioni e partecipazioni democratiche, una dottrina particolarmente adatta al governo dell’Arabia Saudita. «L’uso strategico dei salafiti da parte di Haftar mette in discussione le basi della sua narrativa di guardiano della sicurezza contro gli islamisti», spiega Jalel Harchaoui, ricercatore per il Clinfendael Institute de L’Aia. «Nel 2014 Haftar contava su pochi uomini e non aveva scelta: i salafiti erano disciplinati, e funzionali, ma queste milizie sono cresciute e oggi sono cruciali». La rete salafita è solida e Est e a Ovest: in Tripolitania i salafiti fanno parte delle forze di sicurezza di Serraj, controllano l’aeroporto di Mitiga e le prigioni della capitale e la rete salafita potrebbe dunque essere risolutiva per l’entrata di Haftar in città. «I governi europei devono rivalutare il loro approccio a Haftar visti gli eventi recenti», ha scritto ancora Megerisi, «la priorità deve essere quella di facilitare un cessate il fuoco e una pacifica conferenza nazionale che possa produrre una roadmap politica per costruire la stabilità in Libia. Una simile tabella di marcia offrirebbe a Haftar una rotta negoziata per la partecipazione al governo libico piuttosto che consentirgli di dettare i termini». Un fallimento significhereb be una guerra inevitabile.