la Repubblica, 7 aprile 2019
Cronache dalla Libia
Dal nostro inviato TUNISI Alle 9 di sera, dopo i 3 giorni che hanno fatto saltare ogni trattativa di pace in Libia, il capo del governo di Tripoli, il mite Fayez Serraj, parla in tv. Parla alla sua gente e ai suoi nemici: «Avevo teso la mano verso la pace, ma dopo l’aggressione delle forze di Haftar, dopo la sua dichiarazione di guerra alle nostre città e alla nostra capitale, lui da noi non troverà che forza e fermezza. Se sarà guerra, sarà guerra di devastazione, nessuno vincerà ma noi scegliamo la fermezza». Ci sono voluti 3 giorni, ma alla fine il governo messo in piedi dall’Onu si organizza. Khalifa Haftar, il generale che voleva essere Gheddafi, aveva deciso di far fare un nuovo giro di guerra alla Libia. Il suo esercito, le bande con cui in Tripolitania ha stretto alleanze nelle ultime settimane, da mercoledì provano ad eseguire i suoi ordini. Vogliono marciare verso Tripoli. Tutto intorno alla capitale esplodono gli scontri, le scaramucce fra soldati della Libyan National Army o i loro alleati contro quelli delle città e delle milizie dell’Ovest. Scontri a Ben Gashir, sulla strada di Gharian, all’aeroporto di Tripoli, 25 chilometri dalla città, chiuso da 4 anni catturato dai “ribelli” di Haftar, ripreso da una milizia di Zintan, forse perso ancora e riconquistato. Il ministro dell’Interno del governo di accordo nazionale, il misuratino Fathi Bishaga, mette la sua faccia sul sito Facebook del ministero per dire che «abbiamo il controllo sulla totalità dell’aeroporto di Tripoli». Trappola al battaglione 106 Quell’aeroporto potrebbe diventare una base formidabile per le forze di Haftar proprio alle porte della città. Lì come in molte altre località tutt’intorno a Tripoli, Haftar ha attuato una tattica militare fondata anche sui soldi, sulle alleanze sostenute con promesse di fondi fatte a milizie della Tripolitania in rapporti difficili con Serraj. Ma ad Ovest di Tripoli, verso il confine con la Tunisia, aveva inviato anche una sua unità, il famoso “Battaglione 106” di cui fa parte come ufficiale uno dei suoi figli. Il 106 aveva avuto garanzie da alcune milizie anti-Serraj che avrebbero avuto via libera. E invece le milizie di Zawija hanno teso una trappola al “106”, tutti i 128 soldati sono stati catturati senza sparare un colpo, e le televisioni di Tripoli mandano in onda di continuo le immagini dei soldati seduti in terra, rinchiusi in uno stanzone come fossero migranti rinchiusi in un centro di detenzione. Milizie in vendita È stato da sempre il problema di Serraj: era protetto da milizie pronte a vendersi al miglior offerente. E su questo puntava Haftar, sul crollo del castello di gruppi militari che sostengono il governo di Tripoli. Per cui il gioco è comprare e vendere milizie per vincere le battaglie. Ieri però due gruppi importanti per Serraj, la milizia salafita” Rada” e quella dell’ex capitano di polizia Tajuri ( vicino agli Emirati) hanno confermato che a Tripoli rimangono in campo con Serraj. Sembra che il ministro Bishaga abbia mandato proprio” Rada” a presidiare l’aeroporto internazionale, mentre Tajuri starebbe riportando in strada a Tripoli le sue pattuglie, che per molte ore erano scomparse lasciando la città svuotata dai controlli. Partono gli italiani Un italiano a Tripoli descrive la situazione della città in queste ore: «L’allarme è partito da mercoledì notte. Si sono sentite sparatorie, colpi di cannone lontani. Non si capisce bene quale sia la minaccia. Alcuni imprenditori italiani che erano qui in giro hanno lascito la Libia. È difficilissimo come sempre distinguere le voci dai fatti, Tripoli è sospesa. C’è pochisissimo traffico, i negozi sono stati presi d’assalto, la gente ha comprato tutto il possibile per prepararsi a un vero assedio». Per un paio di giorni il Consiglio presidenziale aveva sbandato paurosamente: Serraj, il ministro Bishaga e il vicepresidente Ahmed Maitig erano gli unici membri del Consiglio presidenziale rimasti a Tripoli. Gli altri erano corsi subito all’aeroporto per prendere i primi voli in partenza per Tunisi e Istanbul. Serraj è stato costretto dai fatti a chiamare in suo soccorso innanzitutto le milizie di Misurata. È stata spostata una flotta di 350 autoblindo di “Bunian Al Marsus”, l’eroica coalizione che nel 2017 ha sconfitto l’Isis a Sirte. Da Zitani sono arrivate altre 100 macchine. Significa che ancora una volta, come nel 2014, Tripoli è stata “commissariata” da una città alleata. Misurata in queste ore starebbe allargando le sue operazioni militari: una colonna è scesa verso Sud, verso Kufra dove c’è anche una base aerea che era in mano agli haftariani. La guida il generale Haddad, i suoi uomini avrebbero arrestato anche un nipote di Haftar. Il nuovo scenario Da mercoledì sera, quando Haftar ha lanciato i primi attacchi, in Libia lo scenario politico è cambiato profondamente. Serraj e Haftar da mesi stavano trattando un nuovo assetto politico per la Libia. Ci sarebbe stata una conferenza nazionale a Gadames, il 14 e 15 aprile, che l’Onu dice di volere ancora tenere in piedi. Proprio mercoledì il segretario dell’Onu Antonio Guterres era a Tripoli per vedere Serraj: al presidente libico offrì immediatamente di organizzare un incontro a Ginevra. Poi era volato a Bengasi, per fare la stessa offerta al generale capo della Cirenaica. La risposta era quella che poi tutti hanno letto,” io continuo la mia operazione militare per ripulire Tripoli dai terroristi”. Gli Usa avvertono il generale: si fermi. La Russia ancora lo protegge. Per ore la comunità internazionale è sembrata paralizzata, come se Haftar avesse informato qualcuno delle sue intenzioni e qualcuno lo avesse segretamente invitato a provarci. Nelle parole della Russia ieri per esempio c’era la condanna esplicita dei a due o tre bombardamenti aerei decisi da Tripoli, mentre poi c’era un invito alla moderazione rivolto a entrambi le parti. I ministri degli Esteri del G7, anche su richiesta del ministro italiano Enzo Moavero Milanesi, hanno firmato una dichiarazione in cui chiedono a Haftar di fermarsi oppure di prepararsi” a una reazione della comunità internazionale”. È l’Europa che a questo punto ha il terrore che una nuova guerra civile alle porte di casa possa davvero sconvolgere il Mediterraneo.