Corriere della Sera, 7 aprile 2019
Intervista con Gianni Bugno
Il 3 aprile 1994 è il giorno di Pasqua. Dopo il pranzo della festa, la voce familiare di Adriano De Zan racconta su Raitre il finale del Giro delle Fiandre. All’ultimo muro sono rimasti in quattro. A 250 metri dal traguardo nonni, genitori e bimbi si alzano in piedi davanti alla tivù: Gianni Bugno, il campione appena 30enne ma già dato per finito, con uno scatto impressionante ha staccato il padrone di casa, il super favorito Johan Museeuw. A 150 metri sembra fatta. Nessuno si accorge, però, che il mastino fiammingo non ha ancora mollato. A 100 metri sono già più vicini, a 50 hanno solo una ruota di differenza. A 10 Bugno smette di pedalare e alza le mani per esultare, e solo allora si rende conto che il rivale sta dando il colpo di reni.
A fine gara nessuno sa ancora chi ha vinto. La tivù trasmette e ritrasmette il fotofinish, i giudici impiegano 10 lunghissimi minuti per decidere: la corsa, 268 chilometri di asfalto e pavé, viene assegnata a Bugno per appena un centimetro.
Ma quella volta, 25 anni fa, non poteva aspettare altri 2 secondi prima di festeggiare?
«Io ero sicuro di avercela fatta. Avevo calcolato tutto, tranne che Johan si era messo nel lato coperto dal vento. Dopo il traguardo mi è crollato il mondo addosso. Perché nonostante le belle parole di de Coubertin, nello sport bisogna vincere, non basta partecipare. Per fortuna alla fine è andata bene».
A proposito di vittorie. Alla fine del Giro d’Italia del 1990, dove lei corse in maglia rosa dalla prima all’ultima tappa, Francesco Moser commentò: questo Bugno mi ricorda Eddy Merckx. Poi cosa è successo?
«Eddy Merckx era il Cannibale: nei suoi anni vinceva sempre, avrebbe vinto contro di me, vincerebbe oggi. Io forse avrei potuto ottenere qualcosa in più, però qualche soddisfazione me la sono presa».
Dove conserva le venti, indimenticabili maglie rosa che ha indossato?
«Non ho più niente di quegli anni, ho regalato tutto, comprese le bici. Non ho mai tenuto ai ricordi, non ho mai rivisto le mie gare su YouTube. Preferisco guardare al futuro».
Durante il suo terribile Giro del 1993, Ettore Mo le dedicò gli ultimi versi dell’Iliade: «Questi furo gli estremi onor renduti al domatore di cavalli». E aggiunse: «Omero tifava per Ettore, io per Bugno».
«Posso dire che ho lottato sempre a testa alta contro i più forti. Correvo in bici perché avevo un fuoco dentro. E non mi sento uno sconfitto».
Indurain era un semidio?
«Per me non esistono semidèi. Ci sono gli uomini, e Dio. Miguel era umano e poteva essere battuto, anche se io non ci sono riuscito».
Lei andava più d’accordo con lo spagnolo, il campione da attaccare, che con l’altro eterno sfidante, Claudio Chiappucci.
«Non è vero che Claudio mi stava antipatico. Abbiamo caratteri opposti: lui ha sempre cercato le luci della ribalta, lo spettacolo, io no. Ma la verità è che correvamo per squadre diverse, non potevamo non essere avversari».
Ha passato la vita agonistica a inseguire il sogno del Tour de France, senza mai riuscire a indossare la maglia gialla. È ancora convinto che il Tour sia meglio del Giro?
«Per niente. La nostra corsa ha un fascino straordinario e un percorso stupendo. E la mia vittoria al Giro non la cambierei con nessun’altra gara al mondo».
Chi le ha regalato la prima bici da corsa?
«Mio papà, alle medie, perché ero stato promosso. Ricordo la nonna che alle prime gare mi diceva: stai attento a non farti male, vai piano... Non è che l’ascoltassi molto».
I suoi due figli hanno preferito il pallone alla bicicletta. Alessio, 28 anni, fa il calciatore di mestiere.
«Alessio gioca nella Pro Sesto e a volte vado allo stadio a vederlo, anche se non capisco bene le regole. Il pallone è un gioco, mentre il ciclismo è uno sport: c’è tutta la differenza del mondo. A calcio stai in 11 contro 11 per un’ora e mezza, al Giro d’Italia stai da solo in mezzo a un gruppo di 180 persone per 3.500 chilometri. Devi pensare a mille cose, ai compagni di squadra e agli avversari, al percorso e all’alimentazione: una scuola di vita».
Pochi giorni dopo le elezioni del 2006, Marco Beccaria in un saggio su «LeftWing» paragonò la vittoria al fotofinish di Romano Prodi su Berlusconi a quella sua al giro delle Fiandre del ‘94. La volta dopo gli sconfitti si presero entrambi la rivincita, Museeuw in fuga solitaria al Fiandre del 1995 e il Cavaliere alle elezioni anticipate del 2008.
«Io e Prodi siamo andati in bici insieme. Per lui ho una stima profonda. Non solo come politico, ma perché è una persona semplice. Per usare un’espressione di moda: anche quando era alla guida del Paese, lui è rimasto davvero vicino al popolo, perché è così per natura».
Diversi ex campioni sportivi sono entrati in Parlamento. Ci ha mai pensato?
«Se me lo chiedessero, mi piacerebbe fare l’assessore nella mia città: Monza. Vorrei occuparmi di sport. E di viabilità».
Ha già un programma?
«Sarebbe bello permettere più spesso ai giovani ciclisti di correre nell’autodromo. Ma soprattutto, io vorrei tornare a vedere i bambini che vanno a scuola in bici. Oggi nelle nostre città è impossibile, le strade non sono sicure».
L’ex premier
Io e Prodi siamo andati in bici insieme. Lo stimo non solo come politico, ma perché è una persona semplice. È rimasto davvero vicino al popolo, lui è fatto così
Anche lei promette più piste ciclabili?
«In Italia non servono perché sono fatte male, vengono invase dai pedoni e si va troppo piano, perché c’è uno stop ogni 100 metri. La soluzione è l’educazione stradale, bisogna insegnare agli automobilisti che se vedono una bici non devono schivarla, ma frenare».
Ma è vero che al Giro del Messico del ‘93, l’autista ubriaco di un carro attrezzi tagliò la strada al gruppo, provocando decine di feriti, e il mite Gianni Bugno smontò dalla bici, lo andò a prendere e gli tirò un pugno?
«Eh, un po’ di casino era successo... Del resto ero il corridore più autorevole del gruppo, dovevo prendermi le mie responsabilità».
Lei è presidente dell’associazione mondiale corridori, cioè il sindacato di categoria. Quant’è lo stipendio minimo di un professionista?
«Trentamila euro l’anno. E le assicuro che sono sudati. Ammiro questi giovani, la loro passione».
Da quando ha smesso di correre non ha messo su un chilo. Come si fa a passare dalle 7 mila calorie al giorno di un corridore al giro, alle 2 mila di una persona normale?
«Quando mi sono ritirato ho trovato un lavoro. Faccio molto sport, non amo andare a cena fuori; nel tempo libero mi piace leggere i giornali, soprattutto nell’edizione digitale».
Un lavoro originale: il pilota di elicotteri.
«A 34 anni non potevo vivere di rendita, e non avevo voglia di andare in giro a fare la vecchia gloria. Sono stato fortunato: dopo essermi dedicato per 22 anni a una mia passione, da altri 23 mi dedico a un’altra attività che mi entusiasma. Fra una decina d’anni aprirò il terzo capitolo della mia vita: la pensione».
Ha letto il libro inchiesta «The program» sul sistema doping di Lance Armstrong? Ha visto il film che ne ha tratto Stephen Frears?
«No, ma non posso rispondere su Armstrong senza dire chiaramente che per me era e resta un amico, anche se non lo vedo da tempo. È una persona che stimo, non voglio essere io a giudicarlo. Rispetto le leggi e le condanne che ha avuto. Ma vorrei ricordare che è un uomo che ha ammesso di aver sbagliato. E ha pagato a caro prezzo i suoi errori».
C’è chi sostiene che abbia distrutto questo sport.
«Io penso che anche grazie ai suoi sbagli si è capito che non bisogna più sbagliare. Il problema del doping esiste in tutti gli sport. La differenza è che il ciclismo è l’unico che lo combatte seriamente».
Però non esiste doping in grado di far toccare il pallone come sa fare Messi.
«Gliel’ho detto che il calcio non è uno sport, ma un gioco. È quasi solo una questione di tecnica, come la discesa nel ciclismo. Solo che nel ciclismo oltre alle discese ci sono le salite».
Anche lei è stato sospeso per tre mesi: eccesso di caffeina, prima di una corsa minore.
«Da anni non è più una sostanza vietata, sfido chiunque a sostenere che bevendo caffè si pedala più forte... Ma quella volta sbagliai io: fu un errore di distrazione che non dovevo commettere».
Ricorda la prima vittoria, al Giro dell’Appennino del 1986, battendo Moser in volata?
«La dedicai a Emilio Ravasio, un ragazzo di 23 anni, anche lui brianzolo, che aveva corso con me già da dilettante e che era stato mio compagno di stanza. Alla prima tappa del Giro, quell’anno, era caduto e aveva sbattuto la testa. Non sembrava niente di grave: era rimontato in sella e aveva concluso la gara; poi la sera in camera si era sentito male, e fu portato in ospedale in ambulanza. Morì dopo alcuni giorni di coma. Era un ragazzo semplice, come me, che dava tutto per lo sport».
I giornali di allora raccontarono che perfino sotto il podio di Benidorm, nel giorno del suo secondo Mondiale consecutivo, lei avesse gli occhi azzurri un po’ tristi. Poi disse in conferenza stampa: «Mi dispiace per Jalabert, anche lui meritava la maglia iridata».
«Ma lei in vita sua mi ha mai visto ridere…?»
Non si sente mai davvero felice?
«E invece sì, anche se non rido. Già soltanto svegliarmi la mattina mi rende felice. Pensare ai miei figli ancora di più. Quest’anno il grande si sposa, il piccolo fa l’università. Vedere che si stanno sistemando è la cosa più bella».
Qualche anno fa, in tivù, Auro Bulbarelli ha detto che il motivo per cui Bugno è stato (ed è ancora) così amato dai suoi tifosi, in fondo è semplice: oltre che un grande campione, è una gran brava persona. Il belga Joan Museeuw in carriera di Giri delle Fiandre ne ha vinti ben tre; ha chiamato suo figlio con un nome italiano: Gianni. Un omaggio al ciclista che stimava di più.
Il figlio
Alessio, 28 anni, gioca nella Pro Sesto e a volte vado allo stadio a vederlo, anche se non capisco bene le regole Il pallone è un gioco, il ciclismo uno sport