Corriere della Sera, 7 aprile 2019
Il genocidio del Ruanda
«Ero là, due giorni prima che cominciasse. E onestamente ammetto che non lo vidi arrivare».
Adama Dieng, 68 anni, senegalese, dal 2012 è l’uomo dell’Onu per la prevenzione dei genocidi. Una funzione istituita nel 2004 dall’allora Segretario Generale Kofi Annan, nel decimo anniversario dell’ecatombe in Ruanda. Sono già passati 25 anni: il 6 aprile 1994 l’aereo con a bordo il presidente ruandese Juvenal Habyarimana fu abbattuto da due missili mentre atterrava a Kigali. I responsabili sono rimasti ignoti. È noto quanto successe nei 100 giorni seguenti. Il governo degli oltranzisti hutu sfruttò la situazione per scatenare il massacro più veloce della storia: 800 mila morti, il genocidio dei tutsi, il massacro degli oppositori hutu.
Il mondo? Rimase a guardare. L’Onu ritirò gran parte dei Caschi Blu, anziché dare loro mandato di proteggere i civili: un’immobilità favorita dall’allora presidente americano Bill Clinton. Uomo di legge e diritti umani, in quei primi giorni di aprile Dieng era in Ruanda per l’International Commission of Jurists. Incontrò Habyarimana, e nella boscaglia pranzò con i capi ribelli del Fronte Patriottico Ruandese, compreso quel Paul Kagame che oggi e da 25 anni è l’inamovibile presidente di un Paese post-genocidio, dipinto di volta in volta come un regime autoritario e come un miracolo di riconciliazione. «Ero là. Si percepivano le tensioni, ma era difficile immaginare quanto sarebbe successo». Il mondo ha le sue colpe. Dieng sostiene che allora «mancava un sistema per inquadrare i segnali di allarme». Oggi ce l’abbiamo, almeno sulla carta. «Il lavoro che faccio è il risultato di quel fallimento collettivo. Dal grido “mai più” sono nate molte cose, per esempio la Corte Penale Internazionale, la giurisdizione sulla “responsabilità di proteggere”». Oggi cogliamo meglio di allora i segnali di violenza di massa, «ma stiamo fallendo in termini di early action». Azione rapida. «Paesi che parlano di prevenzione ma poi non fanno corrispondere i fatti alle parole». Dieng cita i Rohingya in Myanmar, gli Yazidi, come le ultime ferite aperte. «Un’iniziativa che vorrei fosse realtà»: la proposta firmata da oltre 100 Paesi (Italia compresa) per impedire ai Cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza «di usare il diritto di veto su un intervento dell’Onu quando c’è il rischio di genocidio o di violenze contro l’umanità». Dieng non è un burocrate chiuso in ufficio. Tra i suoi successi cita «la Tanzania, dove abbiamo fermato le violenze tra cristiani e musulmani». La spina più dolorosa: «I Rohingya. Per oltre sei anni abbiamo lanciato l’allarme. La signora di Rangoon, Aung San Suu Kyi, ha preferito evitare la via scelta da Nelson Mandela». Già: sono passati giusto 25 anni anche dalla fine dell’apartheid in Sudafrica. «E io credo che ci fosse davvero la possibilità di un genocidio perpetrato dai neri ai danni dei bianchi, se Mandela non avesse cercato la strada della riconciliazione».
Le parole sono importanti. Il mantra di Dieng è «gestione costruttiva delle diversità». Le parole «possono essere pericolose come le pallottole». «Le parole possono uccidere» come le lame dei machete, come dimostra la stessa esperienza del Ruanda, dove per mesi e mesi la radio filo-governativa Mille Colline ha vomitato odio contro «gli scarafaggi» tutsi preparando il terreno per i massacri. Ed è cruciale che i crimini non restino impuniti». Anche se i tribunali non bastano certo a impedire il riaffacciarsi dei mostri. Giustizia e riconciliazione. Dieng cita la Bosnia, dove ha riscontrato «un enorme deficit di riconciliazione. Un piccolo segnale: a Monstar ho visto due scuole sotto lo stesso tetto. Una per i bosniaci e una per i serbi. Questo non è accettabile. Srebrenica può accadere ancora». L’Europa, secondo l’uomo-cassandra per la prevenzione delle violenze, «deve essere più coraggiosa nel denunciare l’ideologia ultra-nazionalista che sfrutta le paure per piccoli guadagni elettorali. Demonizzare o de-umanizzare gli altri, che siano migranti o minoranze etniche, religiose, sessuali, è una deriva che va fermata». Anche in Africa, dove i Paesi più a rischio in questo momento «sono Camerun e alla Costa D’Avorio».
Chi previene e chi indaga. Carla Del Ponte, 72 anni, svizzera, ha lavorato come procuratore al Tribunale per l’ex Jugoslavia così come a quello del Ruanda. «Genocidi che potevano essere evitati – dice al Corriere —. C’erano i rapporti dei Caschi Blu. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avrebbe dovuto e potuto intervenire». Del Ponte valuta come un successo il lavoro dei Tribunali: «Pensavamo che quei processi avrebbero avuto anche un effetto preventivo. E invece no. Basta guardarsi attorno. Birmania, Yemen. E la Siria, che secondo me resta l’esempio chiaro della totale impunità attuale per chi commette crimini contro l’umanità». Del Ponte si dipinge come «assolutamente frustrata. Abbiamo lavorato tutta una vita per questa giustizia, che adesso sembra sparita. Rimango ottimista perché voglio esserlo, ma la situazione è molto, molto grave».
Pensando al Ruanda, il primo ricordo della magistrata svizzera è il caldo pazzesco al tribunale un po’ fatiscente di Arusha. A un certo punto, le hanno tolto l’incarico. «È stato quando ho cominciato ad aprire le inchieste sui tutsi, per crimini di guerra e contro l’umanità. Da Kigali hanno smesso di mandarci i testimoni per i processi sul genocidio. Avevamo elementi per indagare su tredici episodi di violenze di massa, dove i sospettati erano quelli del Fronte Patriottico Ruandese. C’erano le fosse comuni, le testimonianze. Ne parlai con il presidente Kagame, e da quel giorno è stato il gelo. Lui è volato in America, è andato dal presidente Bush, e così il Consiglio di Sicurezza dell’Onu mi ha tolto l’incarico. Ecco che cosa mi ricordo». E l’aereo abbattuto del presidente? «Avevamo cominciato a indagare anche su quello. Avevo formato un team di investigatori molto bravi. C’erano elementi che facevano pensare al coinvolgimento dei ribelli. Ma quando me ne sono andata, il Tribunale ha fermato tutto. Sia l’inchiesta sull’aereo che sulle tredici fosse comuni».