il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2019
Dalla parte di Maduro
È inutile illudersi che lo scontro tra Stati Uniti e Venezuela arrivi a una veloce resa dei conti. È vero che le opzioni che Trump aveva a disposizione fino a qualche mese fa si sono ridotte. L’operazione Guaidó è stata preceduta da una vasta campagna mediatica tesa a convincere tutti – a cominciare dagli stessi venezuelani – che i guai del Venezuela non derivano dalle feroci sanzioni americane e dal crollo del prezzo del petrolio ma sono esclusiva opera del governo Maduro. Questa campagna è culminata nell’autoproclamazione di Guaidó a presidente ed è fallita.
Solo 50 paesi su 192, in pratica gli Usa e i loro alleati, hanno accolto l’invito di Trump a incoronare Guaidó e quasi nessuno Stato ha disconosciuto l’esecutivo in carica. Non si è verificata, inoltre, alcuna insurrezione popolare a sostegno di Guaidó – un politico che nel momento del suo tentativo di golpe bianco era sconosciuto all’81 per cento dei venezuelani – e le forze armate sono rimaste fedeli a Maduro. Ancora una volta, quindi, sembrerebbe confermata la regola enunciata prima da Lenin e poi dalla baronessa Chorley nel suo capolavoro del 1943 su Gli eserciti e l’arte della rivoluzione: “Nessuna rivoluzione o insurrezione potrà mai imporsi contro un governo in grado di esercitare la sua forza”.
Ma la storia può anche non ripetersi, e la partita tra Usa e Venezuela è tutt’altro che chiusa. Per ottenere il cambio di regime in quel Paese, Trumpha in mano tre carte principali: a) le sanzioni cosiddette secondarie, non ancora inflitte; b) l’azione violenta coperta; c) l’intervento militare diretto. Iniziamo da quest’ultimo, che è l’opzione più forte e, al momento, meno probabile. Lo strumento militare è divenuto quasi impraticabile perché le ultime quattro guerre combattute dagli Stati Uniti hanno creato una catastrofe finanziaria e sono state fiaschi politici (Iraq, Afghanistan e Libia) nonché militari (Siria). Ma siccome l’élite Usa ha ampiamente dimostrato, in politica estera, di saper ripetere gli stessi errori, non è scontato che si astenga dal replicarli con il Venezuela. Allo stato attuale delle cose, sembra prevalere l’opinione pressoché unanime degli strateghi del Pentagono che prevedono nel caso di invasione un esito “tra Vietnam e Iraq”, cioè una facile vittoria immediata seguita da un lungo calvario di umilianti e impopolari sconfitte. Fino alla solita, ignominiosa ritirata. Anche la guerra non dichiarata, coperta, fatta di bande mercenarie, sabotaggi, atti terroristici e assassini politici a tappeto stile Cile anni 70 e Nicaragua anni 80 è un’opzione di arduo successo. L’esercito e l’intelligence venezuelani hanno dimostrato di saper lavorare bene, e un armata mercenaria in marcia verso Caracas dal confine colombiano avrebbe vita dura, anche per via dell’ostilità della popolazione rurale beneficiata dal chavismo.
Rimane l’arma potente delle sanzioni secondarie. Esse sono in grado di portare a termine l’assedio medievale in corso contro l’economia e il popolo del Venezuela, costringendo Maduro a piegarsi di fronte alla fame e alla sete dei suoi concittadini. Questo tipo di sanzioni sono una specialità tutta americana, perché non si limitano a punire i rapporti tra imprese statunitensi e venezuelane, ma sono extraterritoriali, colpendo qualunque soggetto terzo che entri in qualunque tipo di rapporto economico con il Venezuela oppure usi il dollaro per le transazioni con il Paese. Le sanzioni secondarie sono perciò in grado di impedire le vendite di petrolio, bloccare il rifinanziamento del debito estero e interrompere le importazioni di ogni genere di prodotti in un Paese che è sotto questo profilo estremamente vulnerabile.
Il più grave difetto dello chavismo, infatti, è stato quello di non diversificare l’economia puntando all’autosufficienza alimentare e alla crescita di un settore produttivo non petrolifero. La capacità di resistenza del Venezuela a un blocco economico totale è perciò inferiore a quella dell’Iran, soggetto da decenni alle sanzioni secondarie americane, ma provvisto di una robusta non oil economy e di un polmone finanziario a Dubai.
La sorte del Venezuela di Maduro è quindi molto legata, in primo luogo, alle decisioni dei suoi amici esteri maggiori, Russia e Cina, che possono permettersi di ignorare le sanzioni degli Stati Uniti, acquistare il suo petrolio facendo a meno del dollaro e rifornire l’economia venezuelana di quanto essa abbia bisogno. A questi due Paesi si potrebbero aggiungere potenze simpatizzanti del Venezuela come l’Iran e la Turchia, nazioni dotate di apparati manifatturieri pronti a esportare in Venezuela e antagonizzate di recente da Trump. Ma il fattore tempo è qui decisivo, e non gioca a favore di Maduro. Se il suo governo non riesce ad accompagnare la svolta economica verso il mondo non-americano con un piano nazionale di sicurezza alimentare da attuare nell’arco di un anno, è la barbarie delle sanzioni che rischia di avere l’ultima parola.