Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2019
Il museo di Doha
Dall’autostrada che dall’aeroporto punta sul centro di Doha, la prima impressione è quella di un cataclisma: tra la foschia che avvolge la corniche, prende quota la silhouette di una concrezione minerale di dischi che si intrecciano e si intersecano formando picchi e terrazze. È la sede del Qatar National Museum, ultima, sofisticata escalation nella corsa agli armamenti culturali di uno dei paesi più piccoli ma più potenti del Golfo. Porta la firma dell’architetto francese Jean Nouvel, autore anche del celebrato Louvre di Abu Dabi che, per il vicino rivale, ha voluto replicare il colpo d’effetto dell’architettura spettacolare, immaginando il suo museo come una gigantesca “rosa del deserto” circondata da sabbia e giardini, in quello stile da “mille e una notte” cui ci hanno abituati da tre decenni gli emirati arabi a partire da Dubai.
Nel ruolo di Scheherazade, c’è Sheikha Mozah al-Mayassa – cuore e cervello della strategia culturale del Paese- definita di volta in volta first lady del mondo arabo, ambasciatrice del glamour e persino una delle donne più eleganti del pianeta: non a caso l’inaugurazione del museo è stata un evento preceduto da un red carpet più adatto a Hollywood che a un’istituzione culturale, con capi di stato e uomini di cultura a far da comparse accanto a Naomi Campbell e Johnny Depp.
Un museo pantagruelico, insomma, con l’intenzione di mostrare il miracolo di un Paese di nomadi beduini e di pescatori di perle che la lanterna magica del petrolio ha aiutato a trasformarsi nella nazione più ricca del mondo. Solo in Inghilterra, infatti, il Qatar ha più proprietà immobiliari della stessa Regina, mentre in Italia, dopo aver fatto razzia dei più prestigiosi hotel nelle città d’arte, la Qatar Investment Authority ha rifinanziato il debito su Milano Porta Nuova Garibaldi e Varesine, l’area dove il fondo ha investito lo scorso anno svariati miliardi di euro per diventarne proprietario.
Con un budget di più di 400 milioni di dollari, Jean Nouvel non ha avuto molti problemi nel realizzare la sua visione: arduo però è stato tradurre questo delirio di 539 (pare) dischi volanti in fiberglass in un edificio di 52mila metri quadri che si svolge in continuità attorcigliando nel mezzo l’originario Palazzo Reale d’inizio secolo (restaurato come una preziosa reliquia attestante la continuità del potere), creando un cortile-caravanserraglio come quello che ospitava i mercanti nelle loro visite in città.
Se dall’esterno il museo sembra l’omaggio di Nouvel all’arte dei giocolieri, all’interno il registro cambia di tono e non sempre in maniera felice. Il concept è basato sulla cronologia. La scena primaria si apre sulla galleria dell’ambiente naturale, con reperti fossili di milioni di anni; a seguire una timeline collega la geologia all’archeologia e all’antropologia mettendo in scena le tradizioni, l’artigianato artistico, i costumi, i tappeti, i gioielli. In conclusione la sala del trono, il trionfo della civilizzazione, allestita dagli olandesi di OMA, dove si tocca con mano lo sviluppo urbanistico di Doha, sostenuto dalla partecipazione di ben undici Pritker Prize, ingaggiati per configurare l’identità del nuovo Quatar: lo sfoggio potente del pugno duro dell’economia dentro il soffice velluto della cultura occidentale. Ma anche lo specchio per distrarre l’attenzione dal grande tema rimosso dei diritti umani e dello sfruttamento del lavoro. Inevitabili sorgono due domande: in che misura questa miscela di soft power propagandistico è parte di un gioco di influenze sullo scacchiere geopolitico e finanziario globale i cui fini sono tutt’altro che culturali? E in che misura l’istituzione museale – che discende dalla tradizione dell’illuminismo occidentale – può conciliarsi con un potere sostanzialmente autocratico e conservatore? Sono le stesse questioni sollevate dalla svolta cinese delle Olimpiadi o dalla corsa delle nuove capitali della dispersa Unione Sovietica. A questi interrogativi diffusi seguono le identiche risposte degli architetti: noi costruiamo per i popoli non per i potenti o le dinastie.
Per chiunque abbia costruito Nouvel, in questo caso resta vivo un altro inevitabile interrogativo: che tipo di museo ha messo in piedi l’architetto?
Quando si entra nel chilometro abbondante di gallerie – un loop di spazi determinati dalle intersezioni di geometrie acute – è la percezione fisica a prevalere sull’allestimento delle collezioni. Ad ambienti oscuri e quasi sotterranei si contrappongono lobby a tutt’altezza con squarci vertiginosi di luce, dando l’impressione di avventurarsi in luoghi accidentati, dove persino la continuità del pavimento cede a salti di quota e a passeggiate inclinate su piani in diagonali, come aveva preconizzato negli anni ’60 il visionario architetto francese Claude Parent, mentore spirituale di Nouvel.
Il museo non è più un contenitore ma un contenuto: il medium, avrebbe detto McLuhan, è divenuto il messaggio. E il messaggio è che un museo oggi fa arte dell’economia delle esperienze, non più della museografia. Il white cube modernista cede il passo alla black box postmodernista, dove l’architettura degli spazi è sostituita da un oscuro spazio-tunnel, set ideale per la prepotente presenza di installazioni visive, secondo l’imperante moda delle experience exhibitions, nella quale al posto di quadri troviamo animazioni e grafiche in movimento. L’apparato espositivo è infatti il punto meno risolto del museo e la discontinuità degli allestimenti contrasta con la vastità di spazi che le stesse collezioni faticano a riempire. Ci troviamo di fronte a una specie “mutante” di musei che hanno poco a che fare con il passato: affascinanti narrazioni dove l’interrogativo dell’opera è sostituito dalla seduzione del racconto. Un racconto senza contraddizioni.