Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2019
Il borgo che diventa albergo
Camminare è un atto creativo. Aristotele, Rousseau, Kant lo sapevano bene. Ed è camminando, fra le rovine di un paesino del Friuli semidistrutto dal terremoto del 1976, che nella mente di Giancarlo Dall’Ara germogliò un’idea: il turismo, ecco cosa poteva risollevare quelle mura e le piccole economie di quei borghi, in Friuli come in tutta Italia, dove il silenzio delle case vuote prendeva il posto degli abitanti. Era nato il concetto di “albergo diffuso”, una formula di ospitalità che prevede che gli ospiti alloggino in stanze o appartamenti ricavati nelle case di piccoli paesi, castelli, poderi, in contatto con la gente del posto, con le loro storie, la loro cucina, il loro artigianato.
«Domenica prossima festeggeremo i 30 anni alla prima formulazione ufficiale di “albergo diffuso” – spiega Dall’Ara, esperto di marketing del turismo, da oltre trent’anni consulente di amministrazioni in tutta Italia e presidente dell’Associazione Nazionale Alberghi Diffusi -: nel 1989, proprio quel giorno presentammo un progetto per rianimare il borgo medievale di San Leo, in Emilia Romagna. Alla fine non se ne fece nulla, ma l’idea aveva preso il volo».
Se nel 2008 i membri erano 20, oggi l’associazione ne conta circa 100, che ne seguono il disciplinare («se consideriamo però anche le strutture non associate arriviamo al doppio», spiega Dall’Ara). I criteri per essere albergo diffuso sono pochi, semplici ma stringenti, sostanzialmente gli stessi che delineano un hotel “verticale” ma declinati in “orizzontale”: l’apertura dev’essere estesa a tutto l’anno, ci devono essere una hall e una reception, servizi di ristorazione e pulizia, gli alloggi devono trovarsi tutti nel raggio di poche centinaia di metri. La differenza fra un albergo classico e uno diffuso è che la colazione si può fare al bar del paese, il pranzo a casa di una famiglia, la hall è una piazzetta con balconi fioriti e panni stesi ad asciugare.
«Un albergo diffuso non si apre in luoghi senza più abitanti – sottolinea Dall’Ara – perché il suo scopo è proprio quello di far condividere agli ospiti la vita locale. Piuttosto, riesce ad aumentare questa vita e tutte le sue attività». Il caso di Santo Stefano di Sessanio, sull’Appennino abruzzese, dove l’imprenditore Daniele Kihlgren ha aperto Sextantio, un sofisticato design hotel, è uno dei più noti in questo senso: «Quando Kihlgren vi arrivò la prima volta il paese aveva solo 62 abitanti. Oggi ne ha quasi il doppio. E da un solo ristorante si è passati ad otto. Un albergo diffuso è capace di alimentare un nuovo tessuto non solo sociale, ma anche commerciale. Alcuni piccoli produttori, per esempio caseifici artigianali, hanno ripreso a lavorare proprio per fornire gli alberghi. E se mancano le marmellate, allora qualcuno inizia a farle».
Il paese di Portico di Romagna, 300 abitanti in provincia di Forlì-Cesena, ospita l’albergo diffuso Al vecchio Convento, dove in un ex mulino oggi c’è persino una scuola di italiano per stranieri. In Sardegna, a Santu Lussurgiu, nell’Oristanese, una signora che viveva a Milano ha restaurato la casa dei nonni, e nel tempo ha inglobato altre case vicine e persino un piccolo albergo abbandonato: nella corte dell’Antica dimora del Gruccione, questo il nome dell’albergo, si può cenare con l’intrattenimento firmato dalla pro loco.
Ridare e cambiare vita
Aprire un albergo diffuso è un modo per ridare vita a un luogo, ma anche per cambiare la propria: c’è l’ex campione di ciclismo che a poca distanza da Perugia offre ospitalità nella Torre della Botonta, quattro stanze e un appartamento realizzati in un borgo fortificato del Trecento. Oppure, l’architetto fiammingo Yvan Van Mossevelde, che insieme a alla moglie Ann alla fine degli anni Sessanta si innamorò e sistemò il paesino di Labro,a 650 metri sui monti fra Umbria e Lazio, dove oggi gestisce il suo albergo diffuso Crispolti in due palazzi patrizi del centro storico. «In questi giorni a Paulilatino, in provincia di Oristano, è stato inaugurato il nuovo albergo Bisos, “sogni” in sardo – racconta Dall’Ara -: è un progetto di Chiara Floris, 36 anni, che ha lasciato il lavoro in Ryanair per restaurare un edificio dell’Ottocento in modo eco-sostenibile, puntando su materiali naturali e valorizzando l’artigianato locale. Per esempio, le testiere dei letti sono tinte con erbe sarde e le coperte sono fatte dalle tessitrici di Samugheo».
A investire in progetti del genere sono soprattutto italiani, legati ai loro luoghi d’origine, di cui conoscono bellezza e storie e sanno dunque come valorizzarle. «Anche se iniziative come la vendita di case a 1 euro in borghi spopolati, come di recente è accaduto anche a Sambuca, in Sicilia, attraggono soprattutto stranieri e possono essere il germoglio per un progetto di albergo diffuso».
Italia battistrada
In realtà è il concetto stesso di albergo diffuso che si sta espandendo nel mondo: dopo i primi esperimenti in Italia, progetti analoghi si sono già ripetuti anche in Spagna, Svizzera e Croazia. Sulla scia della prima, recentissima apertura in Sudtirolo, a Egna, fra breve dovrebbe aprire anche il primo albergo diffuso in Germania, nel nord della Baviera. E nel lontano Giappone ne esistono già due, ai quali presto se ne potrebbero aggiungere altrettanti, nei borghi di Ishinomaki e Maze: «In ogni parte del mondo ogni albergo si chiamerà “Albergo diffuso”, in italiano, seguito dal suo nome in lingua locale. Il nostro non è solo un concetto, ma un marchio, un altro simbolo del made in Italy che fa proseliti oltre confine», osserva Dall’Ara (che peraltro è anche presidente onorario dell’Associazione giapponese degli alberghi diffusi).
Metti i Millennials a cena
A sostenere questo successo planetario è anche il progressivo diffondersi di una sensibilità ai temi della sostenibilità, anche in chi viaggia. Un albergo diffuso è un perfetto esempio di riuso sostenibile: non si costruisce nulla di nuovo, ma si recupera quello che c’è, di edilizio e di umano. Si valorizzano prodotti a km zero, un vivere a basso impatto energetico, tanto che spesso nelle stanze non c’è neppure la tv. «I clienti sono persone che hanno viaggiato molto e che cercano qualcosa di diverso, di autentico. Da Bisos, per esempio, dove non c’è un ristorante, si può cenare a casa delle famiglie del paese, che organizzano anche corsi per fare la pasta a mano». Molti clienti sono giovani, quei Millennials che cercano nuove forme di contatto al di là di quelle virtuali sui social, ed esperienze “vere”, come un pranzo, una chiacchierata o una camminata fra vicoli antichi. Che magari può generare idee nuove e rivoluzionarie.