Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2019
A tavola col re del cioccolato
«Mi sono spesso chiesto se la nostra piccola dimensione non potesse evolvere in qualcosa di più grande. La risposta che mi sono data è no. La reputazione e la celebrità del nostro marchio sono davvero significative. E, anche se mi imbarazza un poco dirlo, mi rendo conto che c’è una sproporzione fra queste due cose e i nostri bilanci. Tutto questo ha però un senso: io controllo ogni fase della produzione e dell’organizzazione, della logistica e del marketing. La nostra natura è intimamente artigianale. La mia è una bottega. Faccio il lavoro di un sarto. Con una azienda più strutturata e con altre grandezze economiche, non sarebbe possibile».
Eccolo qui, Guido Gobino. Sessant’anni, barba folta e perfettamente curata, occhio vigile e con una amorevolezza per i dettagli che sconfina in una ossessione seppur non cupa, mani che vagolano nell’aria alla ricerca di ogni minimo movimento dei profumi e degli odori, delle intuizioni e delle vibrazioni (tante, per vocazione) del sapore e delle vibrazioni (poche, appunto per scelta) dei soldi.
Un maestro del cioccolato e un esempio della capacità del nostro Paese di trasformare il sapere fare e il gusto – è proprio il caso di dirlo – dello stile italiano in un brand noto in tutto il mondo. E, allo stesso tempo, un imprenditore che incarna la scelta – o la necessità – di rimanere piccoli ma estremamente redditizi, con un fatturato annuo di 6 milioni di euro, un margine operativo lordo pari al 20% dei ricavi, sei negozi fra Torino e a Milano e una trentina di addetti: appunto, il paradosso di una notorietà internazionale – soprattutto adesso che ha stretto un accordo con Giorgio Armani per il quale produrrà e distribuirà in tutto il mondo la linea nominata “Armani/Dolci by Guido Gobino” – e il profilo da bottega dei primi del Novecento, da età giolittiana prima che l’industrializzazione trasformasse l’Italia da economia agricola nel Paese delle fabbriche.
Questo paradosso – anzi, questo dilemma – si innesta sulla attuale specializzazione produttiva dell’Italia in cui la “giusta” dimensione fa il paio con il complesso rapporto con il mercato e con l’enigmatico legame con la comunità. Questo dilemma rende il caso Gobino – l’impresa – e il caso Guido Gobino – l’imprenditore – paradigmatici di ciò che siamo e di ciò che vogliamo, di ciò che non siamo e di ciò che non vogliamo (o non possiamo) essere.
Alla Casa del Barolo di Torino, in via Bodoni dietro al conservatorio, iniziamo con un classico della tavola piemontese: pane tostato, burro e acciughe. Gobino ha lo stile modesto e didascalico dell’artigiano che conosce perfettamente il funzionamento del suo microcosmo e che, in virtù di questo, ne astrae regole generali: «Ti spiego perché sono contento così. Non sono diventato ricco, ma non importa. A me quello che interessa di più è il lavoro ben fatto. Non lo dico con ipocrisia. So fare solo questo. Questa mattina ho ricevuto in azienda una partita di cacao. Ho tre biotecnologhe che analizzano ogni grammo di materia prima che entri nei nostri magazzini. Quel cacao conteneva solo il 49% di burro di cacao. Io non uso cacao sotto al 51% di burro. A me quella fornitura non va bene. In ogni caso non la utilizzo per la mia cioccolata. In una azienda più grande, con controlli più standardizzati e con la necessità di rispettare economie di scala anche minime, due punti percentuali di tolleranza sarebbero più che accettabili. Ecco, nel mio caso si applica la tolleranza zero, quella con la quale Rudolph Giuliani da sindaco di New York stroncò la criminalità, alla concezione, alla organizzazione e alla produzione della cioccolata».
Come primo piatto facciamo una deviazione rispetto alla classica cucina piemontese e prendiamo entrambi un risotto con le barbabietole e con il gorgonzola. Invece, aderiamo alla ortodossia piemontarda di fronte alla lista dei vini. «Se ti va bene, sceglierei il nebbiolo Capisme di Domenico Clerico del 2017. Io sono nato a Torino. Ma le mie origini sono in Langa. Mia moglie Teresita è di Farigliano, fra Carrù e Dogliani, e lì abbiamo ancora una casa. Amo sconfinatamente i vignaioli come Bartolo Mascarello e Beppe Rinaldi, Domenico Clerico e Bruno Ceretto. Intorno alla nostra cascina compriamo le nocciole. Ai contadini le pago il 15% in più del prezzo di mercato».
Le vicende imprenditoriali sono sia pubbliche sia private. E riflettono le evoluzioni dei modelli produttivi e i cambiamenti delle società, le felicità personali e i drammi familiari. «La Torino degli anni Cinquanta aveva cento fabbriche di cioccolata: Baratti, Streglio e Caffarel erano i nomi più noti di una filiera completa e ricchissima, seconda in città solo alla meccanica e alla Fiat. Mio papà Giuseppe era venuto qui nel 1950. Era il responsabile di produzione della Glamis, una azienda di semilavorati: masse di cacao, burro di cacao e polvere di cacao. Io sono cresciuto con l’odore del cacao in casa», racconta. «Nel 1962 la Glamis chiude. Mio padre va a lavorare in un’altra fabbrica di cioccolato, diventandone socio. Anche se lui era veramente un uomo di produzione. Come in fondo siamo tutti, qui a Torino», dice assaggiando il nebbiolo.
Nelle sue parole è come se il fordismo e il taylorismo dell’epoca fossero non solo uno standard organizzativo, ma anche l’anima della città, anzi delle città dell’industria pesante europea: Torino come Stoccarda e Lione, Manchester e Liegi. Soltanto che, in quel mondo segnato dalla lineare presunzione di razionalità e dal dritto pensiero positivista, qualcosa poteva andare storto. Ovunque, non solo nell’economia ma anche nella vita privata. «Mia mamma Adelia era una anima inquieta. Quando ero adolescente andò via di casa lasciando me e mio padre da soli. Io mi ero appena iscritto al liceo scientifico. In tre anni, venni bocciato due volte. Ho molto patito. Decisi di andare a lavorare», dice non senza dolore.
Alla fine, Guido si diplomerà in ragioneria alle serali. E, alla Italgas, troverà una posizione come ragioniere alla contabilità industriale. Il papà, a 56 anni, ha un infarto. E, dunque, nel 1980 Gobino deve decidere se rimanere alla Italgas o se tornare in azienda, nella fabbrica di cioccolata di Via Cagliari, quartiere di Barriera di Milano. «Gli anni Ottanta non sono stati semplici. Quando sono entrato in azienda eravamo in sette. Il nostro modello di business non funzionava: lavorare per conto terzi non era profittevole. Avevamo problemi di liquidità. Io ho sempre avuto un senso di vergogna per i debiti. Nel 1989 pensai di cambiare organizzazione e posizionamento di mercato. Andai dalle impiegate di due banche: la Cassa di Risparmio di Torino e il Nuovo Banco Ambrosiano. La prima mi disse di no. L’altra mi diede fiducia», dice mentre sul secondo, rispetto alla consuetudine piemontese, ci dividiamo: lui prende un pesce spada del Mediterraneo con asparagi e pompelmo rosa e io, invece, scelgo del vitello tonnato.
Il meccanismo di trasformazione di un terzista della filiera nazionale della cioccolata in un marchio del lusso delle pupille gustative – la sua cioccolata è venduta fra i 60 e i 100 euro al chilo, contro una media di 20 euro al chilo – è basato sul prodotto e sul marchio.
La cultura del prodotto è un distillato della cultura manifatturiera novecentesca italiana. La cultura del marchio, invece, ne è una evoluzione virtuosamente divergente. La cultura del prodotto porta ai gianduiottini Tourinot, ai fogli di cioccolata e alle sperimentazioni con ogni qualità di cacao e ogni abbinamento: nel 2008, il cremino al sale e all’olio extra vergine di oliva è giudicato la miglior pralina al mondo dalla Academy of Chocolate di Londra.
Gli anni Novanta sono un passaggio significativo per il Paese. Le cose cambiano. Collassano le aziende pubbliche. Le famiglie storiche del capitalismo privato iniziano a ritirarsi e a mettersi al calduccio in posizioni da rentier e da investitori puramente finanziari. In una città conservatrice, militare e monarchica alcuni segni regali – seppur di una dinastia indebolita e fragile – aiutano. «Un giorno arrivò Umberto Agnelli, con la scorta e i suoi assistenti. Volle assaggiare i nostri cioccolatini. Se ne innamorò. Veniva con continuità e voleva sempre quelli che erano appena stati incartati. In un posto come Torino, fu utilissimo», dice Gobino.
Il bacio regale, negli anni Novanta, è utile come lo è anche il tocco di Bob Noto, un torinese negoziante di utensileria industriale diventato celebre come fotografo e come conoscitore di cibi e vini: «Era un amico, un personaggio incredibile che aveva scoperto Ferran Adrià e il suo El Bulli. Un giorno mi spiegò che il nome e il cognome Guido Gobino erano perfetti, come suono, per diventare un brand. Mi disegnò il logo e le scatole. Gli credetti. Ci provai. Aveva ragione».
Per prendere il caffè – naturalmente con una selezione di cioccolatini – facciamo qualche minuto a piedi e arriviamo nel negozio di Via Lagrange. Nel salotto, in un angolo una coppia di tedeschi continua a chiedere nuovi assaggi. Noi ci sediamo dall’altra parte. «Due volte sono venuti dei fondi di private equity con delle belle offerte. Diciamo che, quando hanno pronunciato l’espressione leva finanziaria, in quel momento ho smesso di ascoltarli. Mio figlio Pietro si è diplomato al liceo classico D’Azeglio qui a Torino. Adesso sta frequentando il corso di laurea in Food Science and Business dell’università di Reading, in Inghilterra. Un giorno toccherà a lui decidere che cosa fare: vendere oppure provare ad aumentare le dimensioni della nostra impresa. Io, il mio dovere, l’ho fatto».