La Stampa, 6 aprile 2019
Biografia di Zelensky
La campagna per il primo turno delle presidenziali è terminata. E passerò due ore, in un ristorante di pesce, vicino alla cattedrale di Santa Sofia, con un uomo piccolo in maglietta nera, la voce leggermente rauca, debordante d’energia, supervitaminizzato: Volodymyr Zelensky, quest’umorista di cui nessuno, all’ora attuale, sa granché e che, l’indomani, sbalordirà il mondo arrivando largamente in testa a questo primo turno dello scrutinio.
È l’ex ministro delle Finanze, Oleksandr Danylyuk, che ha organizzato l’appuntamento. Vengo accompagnato da una troupe che riprenderà il grosso dell’incontro. E gli dico, fin dall’inizio, che sono amico di Petro Poroshenko (in italiano Porosenko con l’accento slavo sulla esse), che ho visto il giorno prima e che, qualsiasi cosa avvenga, ai miei occhi avrà sempre tre meriti: aver costruito un esercito; aver fatto in modo che Odessa e Mariupol siano rimaste ucraine di fronte alla Russia. E aver permesso al Paese di allentare la morsa del debito e della recessione.
«Lo so – taglia subito corto lui -. Buon per lei! Ma tutta questa è una vecchia storia. E adesso ci sono io di fronte a lei». Lui conosce, fra l’altro, Poroshenko. Perché è proprio lui, Poroshenko, che, proponendogli l’anno scorso di raggiungere la sua squadra, ha contribuito, mi racconta ora, a dargli l’idea di entrare in politica. Poi, ci sono state anche le conversazioni con l’amico Vacarcuk, il Bono ucraino, che a lungo aveva lasciato circolare l’ipotesi della sua propria candidatura prima di rinunciarvi e di passargli, in un certo senso, il testimone. Ma questi incontri con Poroshenko, queste strane conversazioni in cui gli si diceva «vieni, offrici il tuo nome», ma senza mai chiedergli «cosa ne pensi? Quali sono le tue convinzioni?», sono state il fattore scatenante.
D’accordo, gli dico. Ma adesso a che punto è?
Ci sono, nel suo caso, tre figure possibili: nel migliore dei casi, Reagan; nel peggiore, l’italiano Beppe Grillo. E tra i due Coluche. Ha una familiarità con i primi due. L’evocazione soprattutto del secondo e del suo compromesso con l’estrema destra italiana sembra provocargli sinceramente orrore. Invece, non sembra conoscere Coluche e si stupisce nell’apprendere che, molto alto nei sondaggi, aveva alla fine rinunciato.
«Rinunciare? – dice -, che strana idea».
«Sì: voleva mostrare che il re era nudo e invitarlo a rivestirsi, ma una volta che la cosa era fatta, rispettava troppo la politica».
«Ok, capisco. Ma era sotto François Mitterrand, non è vero? Qui siamo in Ucraina. E non abbiamo in Ucraina un François Mitterrand».
Mi manca lo spazio qui per rendere conto nel dettaglio di questa lunga conversazione. Che si è comunque svolta intorno a quattro temi.
Il leader del Cremlino
La sua opposizione risoluta a Putin. Un’osservazione strana ma che mi sembra, con la distanza, così giusta: «Questo tipo non ha alcun riguardo. Ha gli occhi, ma niente sguardo». Il suo primo faccia a faccia con lui, inevitabile se sarà eletto, gli fa venire già la saliva in bocca: «Lo sa che sono capace di far ridere perfino lui? Un riso a denti stretti, ma un riso comunque. E tutta questa gioventù russa, che mi conosce bene, scoppierà a ridere con me. Come diceva lei riguardo a Coluche? Il re è nudo?».
Il suo programma
È lui che a questo punto scoppia a ridere, quando gli faccio un’obiezione: ci vuole un programma per governare e, da quanto ne sappia, un programma non ce l’ha. «Ah sì? La pensa così anche lei? E un suo problema, caro amico, non il mio. Perché il mio programma esiste: è pubblico. Ma nessuno si prende il disturbo di leggerlo. Quanto alla mia squadra, dica ai suoi amici giornalisti e diplomatici che avranno una grossa sorpresa. La metterò insieme senza indugi e pubblicamente. E, poiché mi vedete tutti come uno showman, sarà il più bello show della campagna e della mia vita».
L’ebraismo
La cosa straordinaria è che l’ormai possibile futuro presidente del Paese della Shoah realizzata con le pallottole e di Babi Yar sarà un ebreo dichiarato, sicuro di sé, di una famiglia di superstiti di Kryvyj Rih, nell’oblast’ di Dnipropetrovs’k, terra di pogrom. Questo «kid» postmoderno è una nuova prova della disattivazione del virus antisemita, di cui parlo dai tempi del Maidan, la rivoluzione ucraina del 2014? La sua elezione sarebbe come un pentimento collettivo dell’Ucraina di Makhno e di Stepan Mandera? Lui, in ogni caso, è formale: «Il fatto che io sia ebreo arriva in ventesima posizione nella lunga lista dei miei misfatti».
Emmanuel, infine
«Di chi mi ha parlato? – dice, al momento di lasciarci, la mano alla bocca come un microfono e scimmiottando il mio accento francese -. Non ho niente a che vedere con il suo Coluche, né con gli altri. Quello che ammiro è Emmanuel Macron. Fra l’altro, siamo nati lo stesso anno! Gli può passare questo messaggio: non sarei contro la possibilità di fare una pausa tra i due turni e rivedere la Torre Eiffel».
Lo lascio al tempo stesso turbato e melanconico. Volodymyr Zelensky vale più della sua caricatura e forse non è proprio quel populista che ho denunciato il giorno prima, in un discorso all’università Taras Chavchenko (in italiano, Sevcenko con accento slavo su «s» e «c»).
Ma sono triste per Petro Poroshenko (in italiano Porosenko con l’accento slavo sulla esse), alla cui sconfitta non mi rassegno: è l’uomo che ha tenuto testa a Putin, il comandante in capo che ho accompagnato sul fronte, a Kramatorsk, sul capezzale delle vittime di uno dei peggiori bombardamenti commessi dai separatisti filo-russi. Sì, il colosso improbabile, ma così valoroso, che ho visto, nell’inverno ucraino, affrontare l’avversità e la solitudine. Avrebbe meritato di meglio che essere congedato su un umore della Storia. Aggiungo che l’uomo che ho portato all’Eliseo, nel marzo 2014, mentre era ancora nei limbi dei sondaggi, non ha ancora detto la sua ultima parola.
Traduzione
di Leonardo Martinelli