la Repubblica, 6 aprile 2019
Il campionato di italiano
Amano i neologismi, detestano le abbreviazioni anche negli sms. I ragazzi finalisti alle Olimpiadi della lingua raccontano il loro lessico familiare torino Che sia la lingua aulica della letteratura o quella sincopata dei messaggini sul telefono, l’italiano continua a esercitare il suo fascino sugli studenti e lo dimostra il fatto che ben 70mila ragazzi delle scuole superiori, tra cui 23 istituti in 15 Paesi stranieri, abbiano gareggiato quest’anno alle Olimpiadi di italiano. «Conoscere bene la nostra lingua ci permette di cogliere le sfumature della realtà in cui viviamo», sintetizza con la chiarezza di un precetto Tommaso Brusasca, diciottenne di Casale Monferrato, all’ultimo anno del classico. È il primo a concludere la prova nell’aula magna del liceo D’Azeglio di Torino, dove si disputa la finale. Dopo di lui, alla spicciolata, escono gli altri 80 concorrenti. Una schiera di lettori appassionati, poeti e scrittori in erba, ben diversi dallo stereotipo del topo di biblioteca. Da bambini scrivevano fiabe per leggerle ai bambolotti e da grandi vogliono occuparsi di finanza, diventare ingegneri, gestire l’accoglienza in una catena alberghiera, studiare pianoforte. «L’italiano serve anche per leggere un manuale d’istruzioni», sorride Enrico Miotto, di Rovigo, studente dell’Itis. Tra gli autori preferiti citano, più o meno nell’ordine, Roberto Saviano, Italo Calvino e Brandon Sanderson. Detestano le abbreviazioni anche sui messaggini, ma non credono che usarle significhi bistrattare la lingua, solo seguire la velocità della comunicazione. Si emozionano quando scoprono una parola nuova. «Non sapevo che la linea orizzontale delle frazioni si chiamasse obelo», rivela Gaia Volpe, che per le parole e le sue sfumature ha una passione viscerale: «Mi piace anche “fantasmagorico” e poi una volta avevo letto un termine che significava “l’odore della rugiada”, ma non mi ricordo più». C’è chi vorrebbe leggere più spesso parole come “mellifluo”. Quasi tutti sono aperti ai neologismi, ma quelli del proprio vocabolario, «come l’intercalare “pota”», dice il bresciano Riccardo Piantone. Nessuno dice “petaloso”, a quanto pare. E chissà cosa ne pensano i giurati – linguisti e accademici della Crusca – che oggi proclameranno i vincitori, giudicando gli elaborati sulla base di testi di Primo Levi, Michele Serra e «una poesia bellissima di una certa Merini. Alda Merini, no?», dice una ragazza senza imbarazzo. Sono figli dell’epoca in cui vivono. «Non si è mai scritto tanto come oggi – spiega Ugo Cardinale, coordinatore scientifico delle Olimpiadi – Magari il livello non è sempre altissimo, ma sono ragazzi interessanti». Conoscono bene le lingue straniere e le potenzialità che offrono, ma allo stesso tempo diffidano delle ingerenze anglosassoni. Per questo non sopportano termini come establishment o meeting, anche se nessuno sostituirebbe mai computer con elaboratore. Invece non disdegnano certe influenze dialettali. Affermano di amare «l’italiano scritto e parlato bene», ma riconoscono che «ogni contesto deve avere il suo registro», dice Maddalena Carmo, milanese, del liceo Carducci. «L’italiano è la lingua della moda e dell’arte, in Russia ne vanno matti», spiega Luca Lombardi, che è andato a Mosca al seguito del papà, insegnante d’italiano, ed è uno dei quattro finalisti che vivono all’estero. «Parlo italiano con i miei, tedesco con i miei fratelli, francese e inglese a scuola – dice Matilde Navarri, 14 anni, che da 12 vive a Monaco di Baviera – E quando non mi viene una parola, la dico in un’altra lingua».