Corriere della Sera, 6 aprile 2019
Le bufale del fascismo
Sembra un ritornello inestirpabile del modo di pensare di una certa comunità nazionale il titolo di questo libro di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo. Pubblicato da Bollati Boringhieri, con una prefazione di Carlo Greppi, lo studio di Filippi è di grande attualità. Non soltanto a causa delle balordaggini del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani: «Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, le bonifiche, altro».
Una specie di Dizionario dei luoghi comuni, protagonista il fascismo, resiste da più di settant’anni in questa infelice Italia, la sua parte più incolta, almeno. Adesso, a causa degli anniversari – il 1919, la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano – e di un clima politico benevolo verso quel passato creato da Salvini, dalla sua Lega e da un governo autoritario e xenofobo che sembra voglia cancellare ogni spirito di uguaglianza e di umanità, il concetto di Mussolini, il dittatore buono del Novecento, viene riproposto con tutta la sua falsità. Aveva ragione Cesare Garboli quando nelle pagine del suo Ricordi tristi e civili, scriveva quasi vent’anni fa di un fascismo di ritorno, un fascismo che non si è mai sentito sconfitto? «Tristemente minacciosa è la rinascita o lo sdoganamento di un male forse geneticamente inseparabile dalla natura degli italiani (i quali, per atavica sindrome imperiale, si sentono fascisti non appena si sentono italiani)».
Questo di Francesco Filippi non è un saggio militante, una lezione, piuttosto, sul nostro passato che non passa. L’autore del libro è un analista e anche un archivista. Con una documentata ricerca sa spiegare quel che accadde nel ventennio a chi non sa o non vuol sapere.
Quante bufale, quante leggende, o meglio fake news, come si usa dire oggi, quante immeritate medaglie al valore sul petto del caporal maggiore dei bersaglieri Benito Mussolini.
Diede la pensione agli italiani, si proclama. Peccato che i lavoratori ebbero diritto alla pensione dal 1919, con garanzie previdenziali fin dai tempi del governo Crispi, nel 1895. Debellò le paludi, si usa dire. Ma già prima della marcia su Roma furono venti i regi decreti che diedero vita ai consorzi di bonifica. Il Duce seguitò nel lavoro fatto da altri nell’Italia unita. La propaganda, reboante, quella sì, fu il suo forte.
Mussolini diede la casa agli italiani, si usa anche dire. Peccato che non sia stato così: la legge sulle case popolari è del 1903: Luigi Luzzatti, deputato della destra storica, ne ebbe il merito: i fascisti furono sempre abili nell’appropriarsi delle idee di chi li aveva preceduti, gli uomini della fragile democrazia, i politici dell’odiata «aula sorda e grigia» di Montecitorio. Su Mussolini urbanista, regista del piccone, non si sa se ridere o piangere. Basta leggere il saggio di Antonio Cederna sugli sventramenti degli anni del consenso.
Donò agli italiani le autostrade? Ci si è dimenticati, scrive Filippi, dell’ingegner Piero Puricelli che nel 1921 ne ebbe l’idea. (Mussolini tagliò poi i nastri).
Il Duce e i suoi gerarchi integerrimi? Una bugia grande e grossa. Ville, castelli, tangenti, ricchezze nate dal nulla, donazioni statali ingenti, un vivere poco sobrio, altro che liberazione dal «sistema corrotto dell’Italia liberale». I diritti sui possibili giacimenti petroliferi nella pianura padana e in Sicilia dell’azienda Sinclair Oil costarono forse la vita a Giacomo Matteotti che possedeva le prove della corruzione. Come dimenticare il famoso discorso del Duce alla Camera del 3 gennaio 1925, dopo l’assassinio, l’anno prima, del deputato socialista e il fallimento politico dell’opposizione aventiniana: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere». Fu il vero inizio della dittatura. (Bellissimi i capitoli che Antonio Scurati ha scritto sul delitto Matteotti nel suo M. Il figlio del secolo). Un recente saggio di Mauro Canali e Clemente Volpini, Mussolini e i ladri di regime, è dedicato proprio alle ruberie dei gerarchi.
L’economia, poi. Le imposte sempre più alte, l’utilizzazione delle riserve auree della Banca d’Italia, le ingenti spese fatte per la politica militare, la missione in Spagna contro il governo legittimo, la spedizione in Albania per ingrandire il regno, sono gli altri simboli del regime che, con l’occupazione feroce e costosa dell’Etiopia, non portarono certo benessere.
Pensioni, bonifiche, case popolari:
tutte iniziative
già avviate prima
del 1922 dai tanto vituperati governi dell’epoca liberale
«Italiani brava gente» è un altro slogan. Non fu così, in Libia, in Croazia, in Grecia. Ci siamo dimenticati i gas asfissianti usati in Etiopia – iprite, arsine, fosfene – e la micidiale bomba c-500-T, goccioline corrosive e mortali dall’odor di senape, che fece migliaia e migliaia di vittime innocenti? Il colonialismo italiano.
La conduzione fallimentare della Seconda guerra mondiale, 472 mila morti militari e civili, la campagna di Russia con indosso leggeri cappotti autarchici e scarpe di cartone fabbricate così a causa di altre ruberie sono altri segni di un regime fallimentare e suicida. (Fondamentali i libri di Nuto Revelli per capire quale tragedia fu la ritirata di Russia).
Mussolini condottiero? Fece una grande carriera militare al di là dei quadri di avanzamento. Inventò il grado di primo maresciallo dell’Impero che lo mise alla pari del pavido re, traditore dello Statuto del regno, che subì, con qualche flebile lamentela, anche quella diminutio.
Alla rinfusa, poi, il mito della razza italiana, le «leggi razziste prima delle leggi razziali», Farinacci che a Cremona, con il suo «Regime fascista», creò un covo di miserabile antisemitismo, popolato da ignobili personaggi amati dai nazisti. «Il razzismo antiebraico», scrive Filippi, «che venne ufficializzato con le leggi razziali non fu il primo passo, ma solo una delle molte tappe del cammino razzista del totalitarismo italico».
Uno dei temi più approfonditi nel Gran Consiglio del fascismo fu la necessità di una coscienza razziale. (I migranti sono diventati ora i nuovi ebrei?)
Il Duce amava gli italiani, si dice ancora. «Per il Duce», scrisse Ciano nel suo diario, «la razza italiana è una razza di pecore. Non bastano 18 anni per trasformarla. Ce ne vogliono centottanta o forse centottanta secoli».
Perché tanti decenni dopo è rimasta, in una parte della società, la peggiore, questa falsa idea del fascismo? La scuola non ha contribuito a spiegare ciò che allora accadde; una certa politica, anche oggi, accarezza quella visione del mondo; mancò una vera defascistizzazione che in Germania, anche se in ritardo, ci fu.
Siamo così costretti a sentire baggianate che violano la storia, in un momento difficile e pericoloso per una società che avrebbe gli strumenti, le energie positive, per progredire.
Ma ha bisogno di ponti di una limpida politica.