6 aprile 2019
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Biografia di Marco Giallini
Marco Giallini, nato a Roma il 4 aprile 1963 (56 anni). Attore. «Come vive il suo mestiere? “Mettendoci tutto quello che devi metterci quando reciti: devi essere cuore, cervello, anima, saliva, merda, sputi. Non sai mai se arriverai in cima, ma è arrivarci in un certo modo che fa la differenza”» (Pagani) • «Il primo applauso non si scorda mai: “Me lo fecero le suore quando un poliziotto mi riportò all’asilo da dove ero scappato calandomi dalla finestra. Non mi andava di fare il riposino. Avevo quattro anni”» (Emilio Marrese) • «Padre operaio in una fornace, madre casalinga, altri tre fratelli maschi. […] “Mio padre sapeva di polvere, lavorava senza guanti e aveva due mani come ’sto tavolo, ma non mi ha mai sfiorato. A differenza di altri padri, frustrati e avvelenati con la vita: lui era un’eccezione in borgata”» (Marrese). «“Papà aveva fatto la terza elementare, ma per il cinema gli era presa proprio brutta. Aveva poca cultura, denti bianchissimi e un amore per i film che non si può spiegare. Me l’ha trasmessa lui, ‘sta passionaccia. Una volta vide Amedeo Nazzari sulla Nomentana e per salutarlo si fece quasi investire. Gli arrivò davanti, quasi lo abbracciò, non lo lasciava più andar via. Papà magari non sapeva mettere l’accento su ‘Belmondo’ e diceva ‘Godarde’ al posto di ‘Godard’, ma, anche senza avere tutti gli strumenti necessari per capire, non si intimidiva e guardava anche i suoi film. Se veniva a sapere di un set non lontano da casa nostra, si precipitava. Andammo in pellegrinaggio da Blasetti solo per vedere con i nostri occhi Gina Lollobrigida”. Il suo interno di famiglia? “Gente allegra e grandi lavoratori con panorama su una Roma ancora non del tutto divorata dai palazzinari. Eravamo circondati dai campi, dalle cose semplici, dai sacrifici, che erano un evento assolutamente naturale. Mia madre Elsa con un pezzo di carne cucinava per tre giorni. Io mi mettevo calzini e pantaloni di mio fratello maggiore e il primo paio di Levi’s, giuro, me lo sò comprato a ventisei anni. Mio zio tirava il collo alle galline mentre dietro la rete del pollaio ci chiedeva come se nulla fosse a che ora saremmo tornati a casa. Oggi chiamerebbero il Telefono azzurro: all’epoca, per dove sono nato io, era tutto assolutamente normale. Le ferie al mare erano un lusso inimmaginabile. Ma nun ce ne importava niente, a noi Giallini, delle vacanze. Papà il mare l’aveva visto a Marsiglia, durante la guerra, con i bersaglieri. Gli era bastato per sempre”. Sua madre? “Era una donna mora di uno splendore fuori dal comune. […] Però le posso di’ una cosa?”. Dica, Giallini. “Anche questa storia delle origini povere, se è tirata per le lunghe, puzza di retorica. Mi è andata bene e non mi è mancato nulla. Ho sempre mangiato. Anzi, a casa mangiavamo come pazzi. Per il resto, non mi sento un attore preso dalla strada. Non c’è Accattone, non c’è Pasolini, non c’è, scusi il gioco di parole, il ricatto del riscatto. Avevo recitato per anni in teatro con Foà e Coltorti. Avevo una base. Un piccolo patrimonio da spendere”. Niente retorica, allora. Ci dica: chi la portò al cinema per la prima volta? “Per i film vietati ai 14 anni, i biglietti ce li comprava direttamente il bidello Carlone, e, se Carlone proprio non poteva, rimediava Aldo, il proiezionista. […] Nel mio immaginario, dopo Sergio Leone, c’è […] Salvatore Samperi. A suo tempo, Malizia una scossa me l’ha data”. E cos’altro le diede la scossa da ragazzo? “Romolo Valli in Enrico IV all’Eliseo quando avevo sedici anni e la leva militare. Fu molto dura, e quando mi chiamarono mi sembrò di morire. La feci nel 1983, alla Caserma Valfrè di Bonzo di Alessandria, in un edificio rosso e imponente che una certa angoscia la metteva. La caserma era una specie di punizione permanente. C’era anche Paolo Belli, il cantante. Combinai qualche disastro e mi beccai una punizione memorabile: fu un mezzo incubo. […] Vedevo le Alpi per la prima volta, mandavo le cartoline agli amici e quando tornavo per le visite mi chiedevano: ‘A Giallo, ma ’ndo cazzo sta de preciso Cuneo?’”» (Pagani). «“A scuola ho smesso al secondo anno di istituto tecnico, mi sono poi diplomato solo dopo il militare. Mi piaceva fare l’imbianchino, mi piace l’odore della vernice, ancora oggi mi dipingo casa da solo. Poi ho consegnato le bibite in tutta Roma all’alba. Caricavo il furgoncino la sera prima, partivo alle cinque e mezza, staccavo all’una e andavo a scuola di recitazione. Sono entrato all’Accademia con una borsa di studio che neanche sapevo parlare l’italiano. […] Antonio Pierfederici mi squadrò e disse ‘Giallini, con lei c’è da lavorare di lima a sgrosso’. Più che incontrare la cultura, me ce so’ scontrato. Ed è stata una bella botta, per la cultura. Facevo simpatia come una scimmia, a quegli intellettuali. Ero una presenza, co’ ’sto vocione. Me se sentiva. Il debutto fu in una matinée per una scuola femminile: non dicevo una sola battuta, ma quando entravo in scena scoppiava un’ovazione ormonale”. Le prime feste nella Roma bene: “Non mi pareva vero, ci avevo voglia de conosce a bbella ggente, con tutte quelle ragazze che si chiamavano come le strade del centro, Flaminia, Porzia o Giulia, e pensavo che avrei fatto una strage: non successe. Gli straccioni conquistano le principesse solo al cinema”. Meglio le corse clandestine in moto sull’Olimpica, “a giocarsi un pacchetto di sigarette o una bevuta: a un certo punto arrivava la polizia, due botte di sirena e tutti a casa”» (Marrese). «Il primo provino? “Al Teatro Argentina con Arnoldo Foà. Arrivai con una Thunderbolt pagata con le cambiali, parcheggiai, entrai e, vedendolo seduto in terza fila, con la pipa in bocca e il giornale sulle ginocchia, mi sentii avvampare di inadeguatezza e di vergogna. Volevo sparire, a qualsiasi costo. Mi sarei buttato a pesce sulla folla, a corpo morto, come Iggy Pop. Foà disse: ‘Prego, è venuto per la parte?’, e io risposi mentendo: ‘Sì, ma non l’ho imparata a memoria’”. Non era vero? “Volevo soltanto fuggire. Foà mi guardò con disapprovazione: ‘È una grave mancanza di rispetto’, disse. Io tornai a casa, e per miracolo tre giorni dopo mi ritelefonarono. ‘Devi tornare’. Mi prese un colpo. L’Argentina, un tempio, era deserto. Rimbombavano anche i sospiri. Sulle scale incontrai le inservienti delle pulizie, con i loro grembiuli blu: ‘Stia attento, si scivola’. Salii sul palco. Recitai l’Adelchi con tutta la forza che avevo, dall’inizio alla fine: ‘O Re de’ re, / tradito da un tuo fedel, dagli altri abbandonato, / vengo alla pace tua: l’anima stanca / accogli’. Foà si alzò di scatto: ‘Lei è libero nei prossimi sei mesi?’”» (Pagani). «Mio padre venne nei camerini dell’Argentina e gli fece: ‘Ma, ’nzomma, allora, come va ’sto ragazzo?’. A Foà. Come se fossi l’apprendista di un carrozziere». «Ho sostenuto pochissimi provini. Nel cinema sono stato catapultato da un giorno all’altro, soprattutto grazie a Valerio Mastandrea. Fece il mio nome a Marco Risi: ‘Dovresti venire a teatro – gli disse –, c’è un mio amico che è fortissimo’, e lui, Marco, a vedere Casamatta vendesi di Angelo Orlando venne davvero. Gli piacqui. Mi offrì un’occasione ne L’ultimo capodanno: ‘Faresti il marito di Monica Bellucci?’. Capirai, non gli feci ripetere la frase. C’erano almeno quindici persone in fila prima di me, e per farmi ottenere la parte Risi dovette lottare. Cominciò tutto così, nel 1998”. L’anno de L’odore della notte di Claudio Caligari – “Anche lì, con Mastandrea” – e dell’arrivo sugli schermi di un trentacinquenne di periferia di cui nessuno aveva mai sentito parlare. C’è voluto tempo: “Anche se avevo già un decennio di teatro sulle spalle”. Pazienza: “Dicevano ‘domani’, e poi domani non arrivava mai”. […] Travestimento dopo travestimento, lasciando le Gauloises nell’angolo – “Le fumavo per posa: ora son passato a cose più leggere” –, Marco Giallini è riuscito a superare il filtro del pregiudizio e a farsi prendere sul serio» (Pagani). «Ha fatto una lunga gavetta in ruoli di secondo piano. È stato lanciato nel 2008 dalla serie tv Romanzo criminale, in cui interpretava un personaggio di culto, il gangster chiamato “il Terribile”, ma è esploso negli ultimi anni grazie alle commedie di Carlo Verdone Io, loro e Lara e Posti in piedi in Paradiso. E di colpo ha cominciato a fare il protagonista: in Tutta colpa di Freud era uno psicoanalista, in Se Dio vuole faceva il neurochirurgo, con Storie sospese è andato alla Mostra di Venezia. […] Ha talento, una faccia che buca lo schermo e conosce il mestiere: come mai non ha sfondato a 30 anni? “Non me ne fregava nulla. Non mi sono mai dato da fare perché non sentivo l’urgenza del successo. Il lavoro che avevo mi bastava e mi avanzava. Poi la vita ha preso un’altra direzione”» (Gloria Satta). «Comico, malinconico e delinquente, i registi lo hanno messo alla prova nei ruoli più diversi, da Castellitto (Non ti muovere) a Sorrentino (L’amico di famiglia). In Se Dio vuole […] è un primario ateo che, grazie al figlio deciso a farsi prete, dopo l’incontro con Gassmann, un sacerdote speciale, cambia prospettiva. […] Ha girato Storie sospese di Stefano Chiantini con Alessandro Tiberi, Maya Sansa, Giorgio Colangeli e Antonio Gerardi, “la storia di un paesino di montagna, Villa Santa Maria in provincia di Chieti: hanno costruito un cavalcavia alto cento metri che passa in mezzo alle montagne, ci sono stati smottamenti. Interpreto un operaio rocciatore”, racconta, “che segue i lavori: ho fatto un po’ di pratica e un corso. Non dico che voglio fare le cose all’americana, ma se devo girare solo primi piani me ne sto a casa”» (Silvia Fumarola). Tra le ultime pellicole cui ha preso parte, Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (2016), Beata ignoranza di Massimiliano Bruno (2017) e Io sono Tempesta di Daniele Luchetti (2018), «uno di quelli che sono stato più onorato di girare. È la storia di Numa, un losco e ricchissimo figuro che, condannato per affari illeciti, è affidato ai servizi sociali e costretto a frequentare un gruppo di poveri, che tenterà di corrompere moralmente fino all’ultimo. Un personaggio scorretto che sarebbe piaciuto a Risi o a Scola». Grande successo ha inoltre riscosso, a partire dal 2016, nei panni del protagonista della serie televisiva Rocco Schiavone (Rai Due), di cui è attualmente in lavorazione la terza stagione. «Il vicequestore della polizia Rocco Schiavone, romano trasteverino trasferito per una punizione ad Aosta, allergico alla neve e al potere, si fuma una canna prima di cominciare a lavorare. È la sua preghiera laica del mattino. Anarchico, intelligente, il cinismo che nasconde un cuore d’oro, l’eroe dei libri di Antonio Manzini editi da Sellerio conquista la tv col volto di Marco Giallini, che sfida il gelo con loden d’ordinanza e Clarks» (Fumarola). «“Rocco Schiavone sono io: l’unica differenza con lui è che non mi faccio le canne”, dice Marco Giallini. […] Romano e cinico, è maleducato, abituato a fumare marijuana e a prendere a sberle i sospettati, finisce nel mirino dei superiori, si circonda di avanzi di galera. Insomma, risulta più scorretto che mai nella tv che ha fatto fortuna e ascolti sull’esaltazione buonista degli uomini in divisa. […] Il primo Rocco Schiavone suscitò le proteste dei poliziotti e di qualche politico: le è dispiaciuto? “No: ognuno è libero di esprimere il proprio punto di vista. Noi siamo andati avanti senza cambiare”» (Satta). Da ultimo, nel 2019, Giallini è apparso sul grande schermo in Domani è un altro giorno di Simone Spada, nuovamente al fianco di Valerio Mastandrea. «Il ruolo è di quelli tosti: Giallini è Giuliano, un uomo che sceglie di non combattere più contro il tumore ai polmoni che lo sta consumando e affronta un viaggio di quattro giorni per dire addio a quello che più lo tiene legato a questo mondo, per rendere la morte meno spaventosa. Dunque, si ride e si piange? “Sì: è davvero un grande film, uno dei migliori che io abbia mai fatto. È una storia di amicizia, di amore, di cose dalle quali non si può sfuggire e che si cerca di esorcizzare. Qui Giuliano esorcizza la paura della morte ridendo e scherzando, cercando di non crederci, sdrammatizzando l’ineluttabile”» (Elisabetta Esposito) • «Due figli, Rocco (1998) e Diego (2004), dalla moglie Loredana, di cui è rimasto vedovo nel 2011 a causa di un’emorragia cerebrale. «Chi è stata per lei? “Tutto. La madre dei miei figli, la donna con cui sono stato per trent’anni e che, dopo essersi sentita male, se ne è andata dalla mattina al pomeriggio senza che io le abbia potuto dire neanche ‘ciao’. […] La sua morte è un evento che né io né i miei figli abbiamo mai metabolizzato. Non ne abbiamo mai parlato. Non siamo mai andati al cimitero insieme, anzi, in 7 anni, al cimitero sono andato due volte in tutto”. […] I suoi figli accettano l’idea che lei possa avere un altro amore? “Sono ragazzi speciali. Se arriva una ragazza, non salgono al piano di sopra e mi chiedono sorridendo: ‘Sei solo. papà?’. Poi mi fanno l’occhiolino e mi sorridono. Abbiamo una sorta di amicizia. Quando dicono che non devi essere amico dei figli, sorrido. Non sono io a essere amico loro: sono loro che sono amici miei”» (Pagani). «Faccio il padre di famiglia, e per incidente faccio anche l’attore» • «Quanto è importante per lei l’amicizia? “Amicizia e amore per me sono sullo stesso piano. Del resto, l’amore stesso è molto soggettivo. Mio padre non sapeva neanche dove andassi a scuola, ma teneva la luce del comodino accesa fino a quando non rientravo a casa. Per me, questo è amore”. E lei, come lo esprime? “Lo dico. Lo dico ai miei figli e loro lo dicono a me”. Non è così frequente, soprattutto negli uomini. “Lo so, ma ho capito a mie spese che bisogna parlare senza tenersi nulla dentro, perché poi ci si ritrova con i rimpianti delle cose non dette e ci fanno stare male tutta la vita”» (Esposito). Antica e profonda l’amicizia con Mastandrea. «Valerio è un fratello a cui voglio veramente bene, uno che mi ha dato una mano quando a me non credeva nessuno, uno generoso. Gli perdono tutto» • «“La musica è il mio primo amore, forse più forte del cinema. Strimpello il basso e mi piace ascoltare la musica dei Led Zeppelin, Deep Purple ma anche Mc5, The Stooges, Blue Cheer, gruppi che erano poco noti in Italia e che mio fratello mi ha fatto conoscere. Poi mi sono appassionato al rock duro di Detroit e al soul, per poi arrivare al punk dei miei 15 anni. Però poi ritorni, e arrivi anche a Love Supreme di Coltrane e a tutto quello che c’è da ascoltare di sensazionale. A casa ho 2.400 vinili”. Quando non recita e non suona, cosa fa? “Vado in moto. Ho una Norton del ’71, una Triumph e una Buell 1200cc. Il mio rapporto con le moto è particolare (come mostrano le mie cicatrici). Nel 2006 ho avuto un incidente e mi avevano dato per morto. Avevo 52 fratture. Poi si sono accorti che ero vivo, e mi hanno tolto il lenzuolo”» (Emanuele Guerrini). «Sono un motociclista, non uno che prende la moto per andare nei posti. Da quando avevo undici anni e usavo quella di mio cugino. Incidenti ne ho fatti tanti, ma se mi passasse la passione non sarei questa roba qui. Non ho mai avuto una macchina» • «Gli amici mi chiamano Dottor Divago. Inizio un discorso, lo apro, mi entusiasmo, non lo chiudo e poi, con la stessa frenesia, cambio argomento. Sono sempre stato curioso. Di quello che non conoscevo e di quello che, pur sembrando assurdo agli altri, mi piaceva» • «Segue la politica? “Non più. L’ho seguita finché c’erano delle belle teste pensanti. Ammiravo Marco Pannella”. […] Abita ancora alla periferia di Roma: non sogna di trasferirsi al centro? “No, dove sto mi trovo benissimo e conosco tutti. Perché mai dovrei andare in un quartiere dove nessuno ti saluta?”» (Satta) • «“Sono stato sempre un impulsivo, ma non sono stato mai un figlio di troia. Ho sempre avuto la capacità di entrare in contatto con gli altri, e in qualche modo ho desiderato profondamente diventare popolare”. […] “Ho attraversato il dolore, e il dolore mi ha cambiato. Ero più riservato, ma, adesso che gli anni passano e la corda brucia da entrambi i lati, è come se sentissi un’urgenza e avvertissi la fretta di non perdere tempo e di sbrigarmi: a incontrare gli altri, a stringere rapporti, a vivere, se capitano, delle storie d’amore. La vita, dicono a Roma, è un mozzico”. […] Sta bene da solo? “Ci sto benissimo. Dipingo, leggo, cucino, suono, mi guardo un film di Godard, anzi di Godarde, come diceva mio padre”» (Pagani) • «Le rughe, le avevo già a 25 anni». «Faccia un po’ così – dura, segnata, inconfondibile. […] Perfetta per interpretare i due lati opposti della barricata: lo sbirro, o il malvivente. Il cattivo, o il tutore dell’ordine. […] Classico caratterista diventato protagonista, carriera esplosa decisamente tardi, Giallini è davvero un personaggio a sé, nel panorama dello spettacolo italiano. In primo luogo, per la presenza fisica destinata a non passare inosservata, e lontana anni luce dal bell’attore giovane che tanto piace ai produttori. In secondo luogo, perché è uno di quegli interpreti capaci di reggere tutti i registri» (Claudia Morgoglione). «"Il Giallo" è uno di quegli attori che fanno arrivare al pubblico prima la faccia poi il nome. Una bella faccia da cinema francese a metà tra Marsiglia e la Tiburtina: non a caso è un cultore dei polar, i poliziotteschi francesi anni Settanta. Fascinaccio che porta ruoli da bastardo, cialtrone, duro, solitignoto mai fetente per davvero o fino in fondo» (Marrese). «Marco Giallini non ha la carriera di Gene Hackman, ma una bella ghirba da duro malinconico; è bravo ed è l’italiano del momento, non c’è che dire» (Maurizio Crippa) • «Hai esordito in teatro, ma ne fai poco. “Non ho quell’urgenza del contatto con il pubblico… Ammiro chi ce l’ha”. […] “Non rivedo mai le cose che giro. Mai fatto. Mi vergogno di tutto”. […] È vero che fai pochissimi provini? “Li faccio solo se sono innamorato di un ruolo”. Ci sono ruoli troppo cattivi, viscidi o cruenti che non interpreteresti mai? “No”» (Vittorio Zincone). «Tanti Nastri d’argento, nessun David. “A me i David non li danno. Ovviamente mi dispiace, ma non ne faccio un dramma”. Perché? “Evidentemente non sono di moda, ma non ambisco a esserlo”» (Pagani). «Fare il cialtrone mi viene molto naturale, pure troppo. Il mio mito è I vitelloni, il massimo è Vittorio Gassman nel film di Dino Risi Il tigre: era un genio. Essere diventato amico di Alessandro Gassmann è un onore. Solo da adulto ho scoperto Tognazzi, Manfredi. Sordi? Guardi, Alberto Sordi lo tolgo dalla lista perché per me è di un altro pianeta, come Totti» • «Il lavoro è lavoro: se una cosa non la faccio è perché non mi diverte, e non perché tema il giudizio altrui: me ne sbatto. Con una fiction mi ci sono comprato casa. Soldi che mio padre non ha mai visto lavorando tutta la vita, che vergogna. Ma lui non c’era già più. So che è retorico, ma questo è il mio rammarico più grande. "Romoletto faticone nun c’hai voglia de fa’ ’n cazzo", mi prendeva sempre in giro. Non ci avrebbe mai creduto. Mi veniva da andare al cimitero a risvegliarlo: ahò, papà ce l’ho fatta». «Mio padre […] stravedeva per i film francesi in cui una sigaretta e un primo piano potevano durare anche dieci minuti, e […] per incontrare Michel Piccoli avrebbe dato chissà che. […] Se Papà mi avesse visto in concorrenza con Michel Piccoli ai David di Donatello, si sarebbe sentito male. Se ne è andato quando facevo ancora l’imbianchino: non ha fatto in tempo». «Adoro i film noir. Il mio sogno proibito non è lavorare a Hollywood, ma interpretare un polar francese. Non so che darei per essere diretto dal regista Olivier Marchal». «A me non sembra ancora vero che ormai vivo di cinema: sarà che nella vita ho faticato tanto. A casa mia non c’erano soldi. Ho costruito tutto pezzo per pezzo, ho lavorato tanto e […] oggi posso dire che era la mia strada e la scoperta più bella è stata l’affetto del pubblico. Non so cosa voglia dire “essere famosi”, ma la popolarità, il fatto di ispirare simpatia, mi gratifica. Non si vive di solo pane: quando ti dicono “Marco, quanto m’hai fatto ridere”, mi sembra che quello che faccio abbia un senso».