6 aprile 2019
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Biografia di Colin Powell
Colin Powell (Colin Luther P.), nato a New York il 5 aprile 1937 (82 anni). Militare. Ex generale a quattro stelle dell’Esercito statunitense. Politico. Ex segretario di Stato statunitense (2001-2005), capo dello Stato maggiore congiunto (1989-1993), consigliere per la Sicurezza nazionale (1987-1989). «Non potete immaginare che cosa significasse nel 1958, 4 anni dopo lo smantellamento dell’ultima unità di colore, essere un ragazzino nero ed entrare nell’esercito. Nel Sud esisteva ancora la segregazione. Nel Paese c’era ancora chi sosteneva con convinzione che le persone di colore non potessero divenire bravi soldati. Ma esisteva anche un’altra corrente, che affermava che bisognava farci spazio, che ci dovevano concedere un’opportunità. Ritengo di essere stato penalizzato in un senso ma avvantaggiato in un altro, e la mia opinione è che, qualunque sia il vantaggio che ti viene offerto, lo devi afferrare e non sentirti in colpa al riguardo, perché per 200 anni la gente di colore non ha ricevuto nulla» (a Nigel Farndale) • «Guai se fosse vero che il buon giorno si vede dall’aurora. Sono nato a Harlem, a New York, da genitori giamaicani, e sono stato una peste di ragazzo». «Il viso mulatto di Colin è sempre stato un simbolo del sogno americano. […] Secondo un esperto di cose araldiche che ha fatto ricerche sulle sue origini, la trisnonna era la figlia illegittima di una schiava nera e di sir Eyre Coote, governatore britannico dell’isola caraibica. Questo farebbe di Colin un discendente del re Edoardo I e un parente lontano dei Bush. Ma negli anni Trenta era soltanto un nero a New York, che nel tempo lasciato libero dalla scuola faceva il garzone per arrotondare lo stipendio del padre, operaio in una ditta di abbigliamento. Studiava poco e male, per sua stessa ammissione, ma era riuscito ad entrare al City College of New York, l’università pubblica locale, laureandosi in geologia» (Paolo Mastrolilli). «Colin Powell ci raccontò di non essere stato uno studente modello. […] “Saprà di retorica, ma mi ha salvato davvero la disciplina militare”. Negli anni Cinquanta, i figli dei ghetti non avevano molte alternative: o fare la fame o sfruttare le poche opportunità offerte dal servizio di leva obbligatorio» (Ennio Caretto). «Non aveva la minima idea di cosa fare nella vita, fino a quando aveva incontrato gli arruolatori del Reserve Officers’ Training Corps (Rotc), il programma per gli ufficiali di complemento che offre di pagare la retta scolastica in cambio di qualche anno di servizio. A lui, però, il servizio era piaciuto» (Mastrolilli). «In divisa, Colin Powell si distinse al punto che nel ’62, a soli 25 anni, pochi mesi dopo essersi sposato, partiva già per Saigon coi primi contingenti scelti inviati dal presidente Kennedy, e coi gradi di sottufficiale. “Le mie prime ferite e decorazioni risalgono a quell’epoca. Tornai nel Vietnam nel ’68 e nel ’69, e fu la stessa storia”» (Caretto). «Nel 1968 gli avevano chiesto di indagare sul massacro di My Lai, e lui lo aveva smentito così: “In diretta confutazione c’è il fatto che le relazioni tra i soldati americani e la popolazione vietnamita sono eccellenti”» (Mastrolilli). «Afferma che la svolta decisiva della sua carriera avvenne nel ’72. “Vinsi una borsa di studio alla Casa Bianca col presidente Nixon, per l’esattezza all’Ufficio del Bilancio, che era retto da un tipo straordinario, un piccolo californiano”. Il piccolo californiano era Caspar Weinberger, detto “Cap the Knife”, “Cap coltello”, dal brechtiano “Mack the Knife”, perché tagliava il bilancio come un macellaio. Aveva un vice italoamericano dalla statura ancora più minuta, Frank Carlucci, che tre anni dopo, come ambasciatore a Lisbona e con l’appoggio della Cia, avrebbe neutralizzato la Rivoluzione dei garofani in Portogallo. Weinberger e Carlucci rimasero impressionati dalle doti del giovane maggiore. Quando Carter vinse le elezioni nel ’76, glielo raccomandarono. “In pratica”, constata Colin Powell, “trascorsi un decennio tra le scrivanie del governo e le nostre basi in America e in Europa. Ma il mio sogno era di diventare generale: cercai di stare alla larga da Washington”. Una risata: “Non mi andò bene. Nell’83 Weinberger, da un biennio capo del Pentagono, mi telefonò: non ti chiedo, ti impongo di tornare”. Aiutante militare del ministro, Colin Powell fu implicato nell’Irangate. Ma vi fu da buon soldato: eseguì gli ordini del consigliere per la Sicurezza nazionale di Reagan, l’ammiraglio Poindexter, seppur protestando e mettendo per iscritto che occorreva l’autorizzazione del Congresso. “L’inchiesta della Camera lo scagionò, e Weinberger, come una fatina, realizzò il mio sogno: generale, e comandante della Quinta armata in Germania”. Colin Powell si trasferì con tutta la famiglia a Francoforte, deciso a non muoversi per un quinquennio. “Non ci crederete, ma mi richiamarono dopo cinque mesi. All’inizio dell’87, Carlucci, che aveva sostituito Poindexter alla Casa Bianca, mi fece svegliare da Reagan nel cuore della notte. Come si fa a rispondere di no al presidente?”. Il novembre successivo, altro cambiamento. Il falco Weinberger, reso obsoleto dal gorbaciovismo, tornò in California, lasciando il posto all’alter ego Carlucci. “Dal giorno alla notte, mi ritrovai consigliere per la Sicurezza nazionale”. Uno dei suoi più accesi ammiratori fu Gorbaciov, che ne apprezzò la competenza e onestà ai negoziati sul disarmo, e che […] lo ha invitato a Mosca. “La Casa Bianca! Non me ne capacitavo. Io non ho studiato neppure all’Accademia militare di West Point, la fucina dei nostri leader militari. Only in America, solo in America possono accadere certe cose”» (Caretto). Nell’autunno del 1989, «a pochi mesi dal suo insediamento, Bush [George H.W. Bush (1924-2018), ovviamente – ndr] affidò a Powell l’enorme macchina di guerra americana, scavalcando tutti i brass, gli ottoni del Pentagono. A 52 anni, […] divenne il più giovane capo di Stato maggiore delle Forze armate della bisecolare storia nazionale, e naturalmente il primo nero a presiedere alla difesa del Paese, un autentico protagonista dell’American dream, il sogno americano. […] “Colin Powell”, ha riferito Caspar Weinberger, “entrò al Pentagono quando il Golfo pareva ancora minacciato dai sovietici. Modificò tutta la nostra impostazione difensiva: il pericolo vero, proclamò, è che l’Arabia Saudita venga assalita da un vicino, Iran o Iraq che sia”» (Caretto). «Si oppose, inizialmente, anche a Desert Storm, nel 1990-91, insistendo con il presidente perché, prima di passare all’azione, formasse una seria e convinta alleanza internazionale e poi applicasse i tre princìpi che lui, Powell, aveva enunciato. […] Fare guerre soltanto con 1) forze schiaccianti; 2) certezza dell’obbiettivo e della strategia di uscita; e 3) pieno e convinto sostegno popolare all’azione contemplata» (Vittorio Zucconi). «Divenuto un eroe nazionale per aver coordinato e vinto, come capo di stato maggiore, la Guerra del Golfo, Colin Powell ha sempre potuto aspirare a ogni incarico e a ogni poltrona. E c’è chi lo ha spingeva a diventare un "Eisenhower nero", cioè a essere il primo generale afroamericano a entrare alla Casa Bianca. Ma Powell non se l’è mai sentita, di lanciarsi in una campagna elettorale lunga, dura, costosa, spietata, anche dal punto di vista familiare, come quella dettata dal sistema americano. Nel 1996 disse “no” alle offerte repubblicane della presidenza e della vicepresidenza. "Avrò altre opportunità – spiegò – per servire il Paese e fare politica". […] Dopo essere andato in pensione, Powell […] si è occupato di una serie di iniziative per la promozione sociale e culturale della comunità afroamericana. È stato anche chiamato da Bill Clinton in alcuni momenti di emergenza, come durante la crisi di Haiti. Ma non ha mai perso i contatti con la famiglia Bush, memore degli ottimi rapporti che aveva con George senior ai tempi della Casa Bianca repubblicana. Di qui, la risposta entusiasta alle avances del governatore del Texas» (Arturo Zampaglione). In seguito alla vittoria di George W. Bush, quindi, nel 2001 Powell divenne il primo segretario di Stato statunitense nero, mantenendo però la carica solo per il primo mandato presidenziale di Bush. «“Il generale Colin Powell è un eroe americano, un simbolo americano, una magnifica storia americana”, disse George Bush presentandolo. […] Anche molti dei suoi ammiratori che avevano tentato di convincerlo a presentarsi come candidato alla Casa Bianca […] hanno guardato con amarezza la sua quotidiana ritirata davanti all’aggressività dei profeti della guerra preventiva. Per i tre anni trascorsi dall’11 settembre, Powell, che aveva addirittura avanzato l’ipotesi di allentare le sanzioni contro l’Iraq nella certezza che punissero gli innocenti e arricchissero i farabutti, aveva tentato di ripetere quella semplice verità di buon senso che Rumsfeld, Wolfowitz, Cheney e alla fine anche Bush non volevano sentire, che gli scenari rosei di un Iraq in festa all’arrivo degli Alleati erano puro wishful thinking, proiezioni di fantasie ottimistiche. Tentò di spiegare al presidente che in Iraq sarebbe scattata la regola del "Pottery Barn", la grande catena americana di porcellane e casalinghi: “Se lo rompi, è tuo”, e i cocci sanguinosi di quella nazione frantumata sarebbero appartenuti in pieno agli Stati Uniti. Ma, quando Bush lo mise di fronte all’aut aut, “con me o contro di me”, il generale vinse sul diplomatico, e Powell scattò sull’attenti. Fu spedito, come "volto credibile", a recitare quell’abominevole show di illusionismo al Consiglio di sicurezza, nel febbraio del 2003, che non persuase nessuno e che lui stesso, mesi dopo, rimpiangerà amaramente» (Zucconi). «Ha perduto quel giorno alle Nazioni unite, quando ha investito il suo immenso prestigio alzando la finta fiala di antrace e richiamando il mondo ai pericoli, reali, del terrorismo armato di ordigni chimici e nucleari. Quando ha mostrato i pannelli con i laboratori mobili di Saddam, ripetendo la lezione della Prima guerra del Golfo, 1990-1991, “fidatevi di me”. Allora i giornalisti cinici del dopo-Vietnam s’erano fidati e Powell aveva mantenuto le promesse, liberando il Kuwait e fermando la formidabile coalizione internazionale guidata da George Bush padre, sotto l’egida Onu e con russi e arabi in campo, senza far cadere Saddam nei limiti della risoluzione Onu. […] La fiala dell’Onu, però, resta vuota, le armi di sterminio di massa […] non si trovano. Powell è solo. I falchi, ispirati dal vicepresidente Dick Cheney, guidati da Rumsfeld e dal suo vice Paul Wolfowitz, lo allontanano da Bush. La sua prediletta Condoleezza Rice, affidatagli dall’amico e sodale Brent Scowcroft, generale fedele alla “dottrina Powell”, si allea con i duri. Gli uomini della guerra globale contro i veterani della guerra fredda. Il generale Shalikashvili, capo di stato maggiore dell’esercito, si scontra con Rumsfeld sul numero di soldati indispensabili a pacificare l’Iraq, 400.000 secondo l’ufficiale, 250.000 per Rumsfeld, e viene spedito in pensione senza indugi. Powell è accerchiato. Da vero soldato, il ministro dimissionario ha ringraziato […] il presidente, dicendosi fiero di avere servito nella guerra al terrorismo e nel “rinsaldamento delle alleanze”. In realtà ha dovuto sopportare la rottura con “la vecchia Europa” e l’indifferenza per le Nazioni unite» (Gianni Riotta). «Dopo l’attività al governo, […] ha lavorato per diverse aziende tra cui Salesforce.com e Revolution Health, ed è membro del Council on Foreign Relations, think tank di politica estera che ha sede a New York» (Francesco Tortora) • Negli anni successivi al suo ritiro dalla scena politica, pur continuando a definirsi repubblicano, Powell ha sempre dichiarato il proprio voto per i candidati democratici alle elezioni presidenziali, Obama (sia nel 2008 sia nel 2012) e Hillary Clinton (nel 2016), individuando in essi un argine all’estremismo e all’incompetenza a suo avviso dilaganti in campo repubblicano sin dalla candidatura di Sarah Palin alla vicepresidenza nel 2008, e culminati nella candidatura di Trump alla presidenza nel 2016: «Io sono e resto un repubblicano, che nella propria vita ha sempre votato alle elezioni presidenziali per il candidato che considerava migliore». «Favorevole alla libertà di aborto e "socialmente impegnato", come lui stesso si definisce, l’ex generale non è mai piaciuto agli ambienti più conservatori del partito. Ha anche un approccio centrista, tecnocratico, anti-ideologico» (Zampaglione) • Sposato, tre figli • «Powell possiede anche doti di narratore, e persino i suoi nemici non possono fare a meno di riconoscere il suo fondamentale senso morale e il suo fascino: “Una brava persona in una cattiva amministrazione” è il commento ricorrente. Ha una risata leggermente ansimante che conquista, e l’abitudine un po’ meno gradevole di compiacersi dei propri aneddoti popolari, provati e riprovati in occasione dei suoi impegni come oratore. Ama considerarsi un tipo originale anche come capo. “Durante gli incontri a volte mi piaceva fare un po’ lo sciocco, ma la gente sapeva che c’era anche dell’altro. Se devo, posso farti piangere, posso diventare cattivo, posso rovinarti la giornata. Tuttavia ho scoperto che ottengo risultati migliori se cerco di essere affabile. Oltre a essere rigoroso, a fissare standard elevati e a perdonare gli errori, mi piace anche divertirmi”» (Farndale) • «Il suo “famigerato” (il termine è suo) discorso all’Onu del 2003, […] per Powell, è un argomento scomodo. Lo ha definito una macchia nel suo curriculum. Sua moglie Alma si è spinta oltre, affermando che Colin è stato “sfruttato cinicamente” dalla Casa Bianca. La sua popolarità era enorme e i sondaggi lo indicavano come il politico americano che godeva della maggiore fiducia. All’interno dell’intelligence si sapeva che le informazioni che Powell era in procinto di rivelare erano dubbie, ma nessuno osò confessarglielo. È andata cosi? “Non solo non lo confessarono a me, ma non lo dissero neppure ai loro superiori dell’intelligence. In seguito, alcuni agenti sostennero di avere cercato di informare i loro superiori, ma questi affermano il contrario. Tutti noi (io, il presidente, i nostri amici inglesi) prendemmo per buono quello che ci veniva detto, senza sapere che c’erano dei seri punti deboli”. […] Lei appoggiò il presidente? “In verità, la mia opinione era che avremmo dovuto vedere se esisteva un modo per risolvere questo problema delle armi di distruzione di massa percorrendo vie diplomatiche e pacifiche. Lavorai su questa proposta con il presidente e lui l’accettò. Si recò all’Onu e chiese che venisse passata una risoluzione per attuarla. Ma Saddam fallì la prima prova, fornendoci documenti privi di valore in risposta alla nostra richiesta di mostrarci ciò che aveva in mano. Quando non accolse la nostra richiesta, e il presidente e Tony Blair decisero che avremmo dovuto procedere con un intervento militare, io diedi il mio pieno appoggio”» (Farndale) • «Powell, naturalmente, non è un martire e neppure un’ingenua verginella. Non si marcia dal Bronx, dove il padre pescatore emigrò negli anni ’30, fino alle quattro stelle di generale dell’Esercito, alle somme poltrone di capo di stato maggiore della Difesa, poi consigliere per la Sicurezza nazionale […] e infine di capo della diplomazia americana senza essere grandi navigatori di scrivanie. Invocando lo spirito di servizio assorbito nei corsi civili per allievi ufficiali che lui frequentò, evitando la Accademia militare di West Point, ha saputo mettersi agli ordini di comandanti supremi sparsi agli estremi opposti dello spettro politico e ideologico, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton e Bush il Giovane, sempre con quell’aplomb calmo e distaccato, rispetto alle maree schiumanti della politica che non sembravano bagnarlo. Scaricava le tensioni sulle vecchie automobili Volvo che lui amava smontare e restaurare nei week end. La sua arma era la competenza, che faceva pesare nei confronti degli strateghi dilettanti elevati al massimo potere e che non avevano mai visto un combattimento vero, come Reagan, Clinton, George W. Bush. Non per caso lui, che aveva esordito da giovanissimo sottotenente spedito in Vietnam da Kennedy nel 1962, prima di essere mandato in Germania a fare la guardia sul fronte occidentale, aveva trovato le maggiori affinità con Bush il Vecchio, che la guerra aveva conosciuto e fatto davvero, ai comandi di un bombardiere abbattuto dai giapponesi sul Pacifico» (Zucconi) • «In che misura il periodo trascorso in Vietnam l’ha indirizzata verso l’impegno in campo militare? “Beh, è stata la mia guerra. Ho trascorso due anni laggiù: all’inizio quando sembrava un’impresa così nobile, e alla fine quando non lo sembrava più così tanto. Sono un soldato professionista che ha studiato la guerra durante tutta la vita, dagli antichi filosofi a Sun Tzu, a Von Clausewitz, e la mia idea è che si debba sempre avere un chiaro obiettivo politico prima di decidere di ricorrere al rimedio estremo, cioè la forza, che uccide le persone: non solo il nemico, ma anche la propria gente e i civili innocenti che vengono coinvolti nel conflitto”. È per questo motivo che la chiamano il “guerriero riluttante”? “Lo sono, ci può scommettere. Ho visto la guerra. Ho condotto battaglie, e ritengo che i nostri leader politici civili abbiano l’obbligo di riflettere al meglio sulle questioni, prendendosi tutto il tempo necessario prima di dovere giungere a una decisione, e valutare le conseguenze”. Quali sono state le sue riflessioni nel 1996, quando tutti la esortavano a candidarsi alla presidenza? I sondaggi la davano vincente con altissimi margini, e anche Bill Clinton, che alla fine vinse, affermava che l’unico uomo con il quale non desiderava confrontarsi era Powell. Non se la sentiva? “Venivano fatte un sacco di congetture, e io stupidamente dichiarai: ‘Sono talmente in tanti a spingermi in questa direzione che dovrò farci un pensiero’. Questo fece diventare la questione ancora più scottante, ma, dopo 6 settimane in cui non una sola mattina mi ero alzato dicendo a me stesso ‘questo è ciò che voglio fare’, mi resi conto di non possedere per questo incarico quella passione che non può mancare a un potenziale presidente. Semplicemente, non faceva per me. Decisi che le voci erano ormai fuori controllo e che dovevo metterle a tacere. Mia moglie mi guardò e chiese: ‘Perché ci hai messo così tanto?’. Era stata coinvolta nella vicenda perché soffriva di depressione e la rivista Time ci aveva fatto un gran chiasso”. Nessun rimpianto? “No, nemmeno uno”. Neppure nel giorno in cui Obama è diventato il primo presidente di colore? Non ha provato un po’ di malinconia? “No, per nulla. Ho l’abitudine di prendere una decisione e poi passare oltre”. Forse non era un animale politico, ma un soldato nato. “Sì: la struttura, la disciplina e il cameratismo dell’esercito mi si confacevano”. […] Come è stato passare dallo svolgere uno dei lavori più stressanti del mondo a essere un normale cittadino? “Ti staccano il telefono, le guardie del corpo se ne vanno e non hai più il tuo aereo privato. Devi trasformarti e diventare qualcosa d’altro. E questo inizia a casa. Ero seduto in casa in compagnia di mia moglie e le ho detto: ‘Cara, questo è il primo giorno del resto della nostra vita. Non uscirò più di casa alle 5.30 del mattino’. Alma è rimasta un attimo immobile. Poi l’ho udita borbottare sottovoce: ‘Questo sciocco non sa come abbiamo fatto a rimanere sposati per 50 anni’”» (Farndale).