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 2019  aprile 05 Venerdì calendario

Il mistero di un bambino americano

WASHINGTON Il finale non è quello atteso dall’opinione pubblica americana che per l’intera giornata ha sperato che fosse davvero ricomparso il piccolo Timmothy Pitzen, sparito all’età di 6 anni un pomeriggio di maggio nel 2011. Quel giorno suo padre Jim era andato ad aspettarlo all’uscita della scuola, ad Aurora, cittadina a circa 60 chilometri da Chicago. «Non c’è, sono già venuti a prenderlo», aveva risposto la maestra.
Mercoledì scorso, alle otto di mattina, una donna, Crekasafra Night, nota un ragazzo magrissimo che si agita sull’angolo di una strada, a Newport nel Kentucky: 535 chilometri da Aurora. Crekasafra è in macchina. Esita un po’: teme possa essere una trappola. Accosta l’auto con cautela. «Mi può aiutare? Voglio solo tornare a casa», dice il teenager.
Arriva la polizia e prova a mettere insieme i frammenti. «Mi chiamo Timmothy. Sono stato rapito anni fa; stamattina sono riuscito a fuggire da un hotel di Cincinnati dove ero tenuto prigioniero da due uomini». Il ragazzo racconta di aver attraversato il ponte che collega l’Ohio al Kentucky, offre qualche particolare sui carcerieri: «Uno è muscoloso, ha i capelli neri ricci e un tatuaggio sul collo a forma di ragnatela; l’altro è basso con un serpente tatuato sul braccio». I tre aveva alloggiato nel Red Roof Inn di Cincinnati e si spostavano su un Suv bianco con la targa del Wisconsin.
Gli investigatori finora non hanno rintracciato i due uomini, ma tutti questi dettagli hanno convinto l’Fbi a prendere subito sul serio la versione di Tim. Ma nella serata di ieri (ormai notte fonda in Italia) il Federal bureau ha fatto sapere che il test del dna ha dimostrato che il quattordicenne del Kentucky non è il bambino sparito nell’Illinois.
A questo punto il caso rimane ancora nel mistero. E si dovrà ripartire ancora da quell’11 maggio 2011, dalla Greenman Elementary school di Aurora. Quel giorno il padre di Tim scopre che il figlio ha saltato le lezioni. Viene a sapere che sua moglie Amy, 43 anni, si è presentata alle 8 di mattina e si è portata via il bambino, spiegando: «Ho un’emergenza in famiglia, dobbiamo andare». In seguito le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza avevano consentito di tracciare i movimenti di Amy e del piccolo Tim, con il suo zainetto da Spider-Man. Prima tappa allo zoo di Brookfield; poi una traccia in un resort di Gurnee, nell’Illinois e ancora, 240 chilometri a nord ovest, in Wisconsin e infine altri 200 chilometri verso sud a Rockford, di nuovo in Illinois. Capolinea: il 14 maggio Amy viene ritrovata morta in un albergo di Rockfort: ha i polsi tagliati e ha inghiottito una quantità spropositata di antistaminici. Sembra la scena classica di un suicidio. La vittima ha lasciato sul tavolo un bigliettino indirizzato alla sua famiglia: «Ho portato mio figlio in un luogo sicuro, dove sarà accudito. Dice che vi vuole bene. Per favore sappiate che non c’è nulla che avreste potuto dire o fare per spingermi a cambiare idea».
I rapporti tra Amy e il marito Jim si erano guastati da tempo. La donna soffriva di depressione e, secondo la ricostruzione della trasmissione televisiva «Crime Watch Daily», aveva già tentato una volta di togliersi la vita.