Libero, 4 aprile 2019
Un Bosco Verticale per i poveri. Intervista a Stefano Boeri
«Aprile, dolce dormire», recita un vecchio adagio. Per tutti, ma non per Milano. Siamo nel vivo della Settimana dell’Arte: un caleidoscopio di vernissage che ti fa spostare da una parte all’altra della città per cercare di non perdere nulla (ma è praticamente impossibile) e la prossima ci aspetta la Design Week che ruota attorno al Salone del Mobile e al FuoriSalone. A far da congiunzione tra i due eventi l’attesissima inaugurazione a Palazzo dell’Arte del Museo Permanente del Design Italiano: 1.400 metri quadrati di spazio espositivo con il meglio del made in Italy. Prodotti eterni che hanno fatto la storia dell’abitare italiano nel mondo. A tagliare il nastro l’8 aprile prossimo sarà il presidente di Triennale Stefano Boeri che l’ha fortemente voluto. Nel suo studio, circondato da libri, disegni, pagine di giornali incorniciate, fotografie, seduto dietro la sua scrivania illuminata dall’Arco di Castiglioni, accetta di anticiparci qualcosa. Architetto, ci siamo! Milano finalmente avrà il suo luogo in cui celebrare il progetto e incontrare le storie del design italiano. Cosa ci sarà?
«Nella nostra collezione ci sono oltre 2000 pezzi di design che vanno dal 1937 ad oggi. L’8 aprile inauguriamo il “primo episodio”: verranno mostrati oggetti realizzati tra il 1948, quindi il dopoguerra e Gio Ponti, e il 1982 che segna l’inizio di Memphis, una fase nuova del design, di forte rottura introdotta da artisti designer come Ettore Sottsass. Daremo risalto a ogni singolo pezzo esposto per approfondirne la storia, la poetica e raccontare il contesto storico in cui è stato progettato».
Parla di “primo episodio” quindi ce ne sarà un altro.
«Certo, la nostra è una collezione molto ampia. Lanceremo un progetto per allargare lo spazio della collezione: abbiamo già un accordo con il Ministero per un’espansione legata al Palazzo dell’Arte».
Quale è il pezzo più bello che si porterebbe a casa?
«Una domanda impossibile a cui rispondere. Le dico però di un pezzo straordinario: la calcolatrice Olivetti di Mario Bellini del 1973 Dividi Summa. Mi piace molto perché dimostra che Apple non ha inventato nulla. In Italia, a Ivrea, in quel momento c’era un gruppo di persone che lavorava sulle massime tecnologie elettroniche e sulla massima qualità del design, del packaging, del materiale. Questo racconta dell’Italia che avrebbe potuto essere e che non è stata. Fa pensare molto. Avremmo potuto fare cose incredibili».
Anche l’Adi, l’associazione che promuove il Compasso d’Oro, ha annunciato l’apertura di un suo museo del design nell’ex area Enel davanti al Monumentale. Siete in concorrenza?
«Ma no! Insieme abbiamo creato l’Associazione Sistema Design di cui fa parte anche Musei d’Impresa di Confindustria che si occupa delle collezioni di oggetti e utensili industriali. Abbiamo stabilito una serie di strategie comuni».
L’apertura del Museo del Design costituisce un altro pilastro del nuovo corso della Triennale. Un assaggio già l’ha dato la XXII edizione Broken Nature che riprende il format delle edizioni storiche. Quanto c’è dell’ex presidente Claudio De Albertis in questo progetto?
«Ogni presidente lavora nel solco tracciato dai precedenti. De Albertis è stato importante perché ha ripreso l’idea delle Triennali Internazionali che erano state abbandonate per venti anni. E poi ha fatto delle operazioni importanti come quella della terrazza che era un’idea di Rampello, ma che De Albertis ha realizzato».
Quale è stata la Triennale del passato che più ha influito sulla sua carriera?
«Bella questa domanda! Ho tanti ricordi, ma quella del 1972 fu fondamentale. Ero piccolo e c’era l’artista austriaco Hundertwasser che girava in via Manzoni con alcuni alberelli in mano, una specie di performance situazionista. Era una Triennale dedicata alla vita domestica ed egli sosteneva che bisognava considerare gli alberi come inquilini. Non era un gran che come architetto, la cosa interessante era la sua passione per un’architettura organica. A Vienna aveva progettato degli appartamenti con la terra sul pavimento per farci crescere le piante. Se si va a Vienna ce ne sono ancora due con gli alberi che escono dalle finestre. È stato una ispirazione per il Bosco Verticale».
Ecco parliamo del Bosco Verticale : lo state replicando in Cina come antidoto allo smog e presto anche Monza ne avrà uno.
«A Monza sarà un boschetto (ride, ndr): sono tre edifici alti la metà di quello di Porta Nuova che verranno costruiti per recuperare un’area dismessa e pericolosa. Lavorando in altezza si possono liberare degli spazi per il quartiere».
A Milano il suo Bosco funziona come polmone verde?
«I dati che abbiamo sono tutti molto positivi. Il verde è una delle cose più semplici e meno costose per migliorare la qualità dell’aria, ridurre il calore che è un altro aspetto importante nelle città e la produzione di Co2. Inoltre dimezza i consumi energetici. Forse la cosa che si sa meno è che l’estate negli appartamenti del Bosco Verticale non si adopera l’aria condizionata. Il sole non arriva diretto sulle pareti e dentro ci sono almeno 10° in meno».
Fantastico, ma non tutti se lo possono permettere. Si arriverà prima o poi a città che offrono case così a prezzi più accessibili o magari di edilizia popolare?
«Lo stiamo già facendo. Abbiamo appena aperto il cantiere a Eindhoven in Olanda. Lì stiamo costruendo un bosco verticale in edilizia popolare, in social housing, quindi costerà molto poco di costruzione. Saranno tutti appartamenti in affitto, di cinquanta metri quadri. Abbiamo lavorato molto per ridurre i costi».
Quindi si può fare anche qui in Italia.
«Certo! A Roma, Torino... Nel progetto del “fiume verde” avevamo previsto queste tipologie abitative».
Il “fiume verde” mirava a collegare gli scali ferroviari recuperati. Che fine ha fatto quel progetto?
«L’idea è sempre lì. L’avevamo verificata ed è fattibile. Speriamo che venga seguita. Il progetto prevedeva il 90% degli scali ferroviari destinato a verde e che solo il 10% fosse costruito con edifici alti in grado di ospitare le attività che oggi mancano nei quartieri di Milano: soprattutto residenze e spazi per i giovani, oltre che edilizia sociale e di mercato».
Tra i suoi progetti che potrebbero essere ripresi c’è pure quello di San Siro.
«L’idea è di utilizzare il lato Est, dove c’era il trotto e di fare lì un ingresso dedicato a una delle due squadre. In questo modo San Siro potrebbe ancora funzionare: le due squadre potrebbero caratterizzare i rispettivi ingressi e la cosa comune sarebbe solo il campo di calcio, che è anche una bella immagine. Questo progetto è stato verificato, esiste».
Dicono che è più economico buttare giù e ricostruire piuttosto che ristrutturare.
«Non sono sfavorevole a un nuovo stadio dico soltanto che San Siro è uno stadio storico, unico al mondo perché sono tre strutture una sopra all’altra: quella degli anni Venti, una degli anni Cinquanta e una del Novanta ciascuna con una propria struttura visibile. Questo stranissimo palinsesto magari esteticamente non è il massimo, ma è molto interessante. Io ci penserei molto bene prima di buttarlo giù».
Rimanendo a Milano: riaprirebbe i Navigli?
«No, li vorrei veder riaperti solamente su via Melchiorre Gioia. Nel centro sarebbe una stupidata: si investirebbe su una zona già ricca di Milano mentre quei soldi potrebbero essere spesi nelle periferie. Sarebbe invece una bellissima cosa riportare in superfice la Martesana fino alla Darsena di San Marco».