il Giornale, 4 aprile 2019
«Il macellaio» di Márai va alla guerra
Da anziano, Sándor Márai confessò di non amare il suo romanzo Le braci, proprio quello che lo aveva reso famoso in tutto il mondo con molto ritardo dopo la prima, fallimentare edizione ungherese del 1942. Non lo amava, rivelò, perché lo considerava «eccessivamente romantico». C’è un passo del libro che in parte dà ragione al vecchio e saggio scrittore. Dice il generale Henrik nel suo quasi-monologo, rivolto a Konrad: «L’uomo e il suo destino si realizzano reciprocamente modellandosi l’uno sull’altro. Non è vero che il destino si introduce alla cieca nella nostra vita: esso entra dalla porta che noi stessi gli abbiamo spalancato, facendoci da parte per invitarlo a entrare. Non c’è infatti essere umano abbastanza forte e intelligente da saper allontanare, con le parole o con i fatti, il destino infausto che deriva, secondo una legge ferrea, dalla sua indole e dal suo carattere».
Il passo dà soltanto in parte ragione all’autocritico Márai perché se al destino vengono spalancate le porte, e dunque non entra di soppiatto in casa della gente come un ladro, allora non è più propriamente destino, bensì, più semplicemente, la conseguenza dei limiti fisiologici, caratteriali e intellettivi degli uomini. Inoltre, nella resa dei conti fra Henrik e Konrad, amici-nemici per una sessantina dei loro 75 anni, non si sa quale dei due abbia avuto le maggiori colpe, o sia responsabile delle più gravi omissioni, in particolare dall’entrata in scena di Krisztina, moglie del primo e amante del secondo.
Il tema del destino e delle sue traiettorie modificate dalle azioni plateali o impercettibili di uomini e donne è presente in gran parte dell’opera di Márai, da I ribelli del 1930 a L’isola del 1934 a L’eredità di Eszter del 1939 a La donna giusta del 1941. E soprattutto segna in modo clamoroso l’esordio narrativo dell’autore ungherese, dopo la raccolta di poesie Album, datata 1918. Si tratta del breve romanzo Il macellaio del 1924 che oggi esce per la prima volta in italiano da Adelphi (pagg. 98, euro 10, traduzione di Laura Sgarioto). Ma qui il destino resta, per così dire, immune dalle interferenze umane, e non appare nemmeno come uno scomodo e arrogante intruso che mette a soqquadro le esistenze dei personaggi. Ha, piuttosto, la potenza incontenibile della natura, del sangue, addirittura del Dna. È come una tara ereditaria impossibile da tenere a bada, come una belva indomabile. Tuttavia, una lettura in parallelo con Le braci è possibile. Sia nel disegnare le vite gemelle di Henrik e Konrad, sia dissezionando come un anatomopatologo l’atavica bestialità del Macellaio del titolo, cioè di Otto Schwarz che già con il cognome si annuncia «nero» come la morte, Márai tiene costantemente a portata di mano e di penna un solido punto di riferimento: la guerra, palcoscenico della follia delle nazioni. Se sotto le Braci covano due guerre mondiali, la Prima e la Seconda, nascoste, appunto, da uno strato di cenere poiché il confronto fra i due avversari avviene nel 1940, e per di più in una sorta di enclave fuori dal mondo ora nuovamente messo a ferro e fuoco, cioè nel castello del generale, nel Macellaio assistiamo alla rapida diseducazione sentimentale di una sorta di mostro della porta accanto.
Le magistrali pagine iniziali che raccontano sotto quali infausti presagi viene concepito Otto, figlio di un sellaio di una cittadina del margraviato del Brandeburgo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, ci fanno subito capire che stiamo per fare la conoscenza con una specie di Moosbrugger musiliano, un essere marchiato dalla violenza e che dunque dalla violenza non può emendarsi in alcun modo. «Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la vita alla madre»; a scuola, durante le ore di canto «urlare gli procurava una visibile soddisfazione che lo faceva cadere in preda a una sorta di ebbrezza sfrenata». Un giorno, vede un macellaio all’opera: «la scure scintillava al sole, come gli occhi della mucca, che egli scrutò da vicino e sulla cui cornea si rifletteva placidamente la rimessa, la taverna, i carri e la sua stessa immagine. L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra... si impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale».
Da allora, per Otto dare la morte significa vivere e vincere, fare il proprio dovere di cittadino. Prima lo fa da macellaio nella vicina Berlino, dove il padre lo conduce per una iniziazione laica alla «miseria sistematizzata» della modernità. Poi lo fa nell’esercito, quando la patria lo chiama, sul fronte serbo. Avvezzo ai coltelli, s’affeziona alla baionetta, abituato all’odore del sangue vivo sui banconi, respira a pieni polmoni l’afrore inebriante di quello dei nemici in trincea. «Non aveva una consapevolezza della vita, perciò non ne aveva neppure della morte; non sapeva di essere vivo, e così non sarebbe mai stato capace di pensare di poter morire. Non aveva di questi crucci. Inoltre la circostanza che lo portassero in giro facendogli attraversare paesi e depositandolo da qualche parte, lo vestissero e lo nutrissero, lo facessero addirittura divertire, e in cambio pretendessero soltanto che non crepasse, che ci fosse e basta, lo colmava di particolare soddisfazione».
Una decorazione, poi un’altra, il grado di sergente... Il buon soldato Otto sarebbe quasi un eroe se non intendesse (proprio come il Moosbrugger di là da venire a corollario dell’Uomo senza qualità) anche le donne come carne da macello. Con o senza il benestare di Márai, possiamo dire che quello era il suo destino. E comunque: «Le spese processuali furono addebitate all’erario».