la Repubblica, 4 aprile 2019
I 60 anni di Nino La Rocca
L’infanzia senza una scheggia di felicità, i tormenti dell’eroe senza patria, la rincorsa dei sogni, di quelli che però ti svegli sul più bello scrutando una realtà amara. Nino La Rocca domani taglia un bel traguardo: sessanta anni vissuti con una intensità tale che ad uno ‘comune’ non ne basterebbero cento. Istrione del ring, si guadagna l’impegnativo soprannome di Muhammad Ali italiano, lui che per 19 anni è stato Cheid Tijani Sidibe. Papà del Mali, paracadutista dell’esercito coloniale francese, poligamo con una trentina di figli dei quali non può, probabilmente non vuole prendersi cura, la mamma invece è siciliana. Una vita complicata lo porta in Marocco: «Provo cosa significa avere fame. Una volta a scuola sono talmente disperato che minaccio un mio compagno. ‘O mi porti un arancio o ti faccio fuori...’». Sidibe diventa Nino La Rocca (era il nome del fratello della madre) in Francia: «Ho 19 anni, in Marocco già combatto, ma di fatto sono un apolide. Batto tutti ma non mi riconoscono campione perché non ho la cittadinanza. Quando ho il passaporto per la Francia è come se venisse tracciata una linea che chiude una giovinezza terribile». Nino però si sente italiano: «In Francia al primo incontro metto giù in pochi secondi un campione parigino, si inizia a parlare di me. Però di quattrini neanche l’ombra. Il mio manager mi sfrutta, la paga è di 5 franchi al giorno. Almeno mangio, ma insomma...». Una situazione ancora misera che trova la svolta in un posto da ricchi. «A Montecarlo. Dormo sulla spiaggia, ma in città c’è il grande organizzatore Rodolfo Sabatini. In qualche modo riesco ad avvicinarlo e convincerlo che valgo. Lui mi affida a Rocco Agostino». È un tipo dalla faccia burbera, con i lineamenti disegnati dal tempo e due missioni: guidare il filobus a Genova e allenare pugili. «Mi fa alzare alle 4 di mattina. Corsa, poi palestra, tecnica, ring e... niente altro. Solo fatica e ‘reclusione’ dentro una pensioncina».
La classica dura vita del pugile: «Ad un certo punto scappo in Francia, ma Rocco mi viene a riprendere». Ci riesce senza problemi, anche perché Nino dell’Italia non può fare a meno: «È il mio paese, mi arrabbio quando sento parlare di razzismo perché ritengo non ci sia. Si può però migliorare. Ad esempio mi sembrerebbe giusto attribuire la cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano, non capisco perché uno deve aspettare una vita per vedersi riconosciuto un sacrosanto diritto». Parole con cognizione di causa, anche perché se non fosse per un presidente partigiano... «La mia carriera va bene, vinco, do spettacolo e sono popolarissimo ma il match per ottenere la cittadinanza italiana è tosto. Un giorno sono ospite da Gianni Minà alla trasmissioneBlitz. Sandro Pertini ascolta la mia storia e telefona in diretta. Dice che ci avrebbe pensato lui, un grande uomo, di parola... Quando vado al Quirinale c’è una ressa di giornalisti, ricordo che per il presidente porto un vasetto di pesto alla genovese».
Italiano: è il 1983. Match a New York, Las Vegas. Manca solo la ciliegina, il Mondiale. L’ultimo ostacolo è un texano, Don Curry. È sornione, freddo, ha il pugno al veleno, lo chiamano il Cobra. «Il match è nostro» gli dice Agostino dopo tre round, ma sbaglia. «Aspetto da troppo tempo questa sfida, arrivo vuoto nel fisico e nella mente». Ko, un disastro. E il bel mondo lo abbandona. Il rifugio in una donna per la quale il futuro riserva il ruolo di attrice hard: «La conosco da un mese, la sposo, voglio creare quella famiglia che non ho mai avuto». Altro disastro: «L’errore più grande. Per lei finisco i soldi, riesco a spendere trenta milioni in un giorno...». Resterebbe la boxe. Rientra tra alti e bassi, poi l’oblio: «A trenta anni la federazione mi accantona.
Dicono che parlo troppo. Poi mi bocciano perfino quando cerco di prendere il patentino di allenatore». Attualmente vive a Roma e dirige i ragazzi che vogliono provare con la boxe: «Ma vedo poca voglia di sacrificio». Nino La Rocca, storia di un italiano.