Nell’aprile del 1919 Walter Gropius aprì a Weimar la scuola del Bauhaus (casa del costruire), l’accademia di arti applicate e architettura che sarebbe divenuta il tempio del design, della linearità, del razionalismo ancora oggi venerato.
Il suo principio era unire arte, funzione, tecnica, industria.
L’istituto si sarebbe trasferito nel 1925 a Dessau e infine nel 1932 a Berlino, dove, nel 1933, il Terzo Reich lo avrebbe chiuso tacciandolo di bolscevismo. In quelle aule passarono i maggiori esponenti delle avanguardie, da Mies van der Rohe a Paul Klee, da Vasilij Kandinskij a Laslo Mohology-Nagy. La Germania, ma non solo, festeggia il centenario.
Lo fa, tra l’altro, con un nuovo museo del Bauhaus a Weimar progettato da Heike Hanada, e un altro a Dessau firmato dagli spagnoli Addenda e con unGrand Tour of Modernity che tocca 460 località tedesche. C’è anche chi ha voluto omaggiare questa svolta nell’immaginario mondiale con un romanzo,La ragazza del Bauhaus (Guanda). E non è un caso che si tratti della figlia 33enne di uno dei maggiori pensatori europei del secondo ’900, Hans Magnus Enzensberger, scrittore, poeta, filosofo, editore, un maestro della riflessione critica sulle grandi utopie che abbiamo attraversato. Theresia Enzensberger ha lo sguardo interrogativo, ironico, informale così caratteristico del grande padre oggi novantenne. Nel 2014, ha anche fondato una rivista letteraria pluripremiata, Block Magazin. Dove lei, che si autodefinisce femminista radicale, forse ha trovato un modo per sfuggire all’ombra paterna.
Theresia, che cosa ha significato essere la figlia di uno dei più importanti pensatori del Novecento come Enzesberger?
«Sicuramente mi ha influenzato tantissimo, nelle scelte, nell’approccio alla cultura. Tutti i genitori sono fondamentali per i loro figli, nel bene e nel male. Il punto è che non riesco a immaginare un’esperienza diversa dall’essere sua figlia. Quindi è difficile capire quale sia la differenza rispetto agli altri. Ma poi io sono io, al di là di lui».
Perché ha scelto il Bauhaus come set del suo esordio?
«Mi interessava il potenziale politico dell’architettura e del modernismo, e quando sei in Germania, se hai questo tipo di interrogativi, non puoi non pensare al Bauhaus. Gli anni ’20 a Weimar ribollivano di temi ancora oggi così rilevanti: il rapporto tra arte e tecnologia ad esempio, una questione a cui il Bauhaus dava risposte rivoluzionarie. Mi coinvolgeva anche il fatto che non vi fosse un pensiero unico, ma molti punti di vista diversi. Oggi è fondamentale rivedere tutto questo per la nostra generazione».
Per metà del romanzo dà spazio al gruppo legato a Johannes Itten, che certo del legame tra arte e industria pensava cose diverse da Gropius. Itten era una specie di santone che sosteneva le teorie Mazdaznan, un movimento esoterico, mistico. Come mai gli dà così tanta importanza?
«Erano un gruppo molto affiatato.
Itten e i suoi studenti si preoccupavano della purezza dell’artista, della ricerca di una verità interiore. La sua dottrina era in contrasto con il modernismo, ne rappresentava quasi il contraltare.
Lui e i ragazzi passeggiavano nella natura, si svegliavano all’alba, facevano esercizi nel verde, si vestivano con delle tonache monacali, praticavano l’amore libero. A me piaceva descrivere questo quid romantico che albergava tra loro».
Perché Gropius lo aveva chiamato?
«Non sapeva che Itten si sarebbe preso una parte così importante. Ci fu un grande conflitto tra loro. Poi nel 1923 lo cacciò. Si era creata una sorta di schizofrenia insostenibile.
Ma in fondo, se ci pensa, sono dicotomie a cui assistiamo anche adesso: da un lato siamo governati dagli algoritmi, parliamo per numeri, dall’altro ci sono persone che si rifugiano nell’irrazionale, nello yoga, in nuove spiritualità».
Siamo negli anni ’20. Presto l’antisemitismo conquisterà il Paese. E il Mazdaznan promuove l’idea che la terra dovesse essere governata dalla supremazia della razza ariana...
«È terribile e molto interessante.
Perché Itten parlava di razza superiore, ma pensava che gli ebrei ne facessero parte. Certe idee di cui scrivo e che sappiamo portarono al Terzo Reich, appartenevano a un mondo caotico. La Germania di Weimar viveva nel caos. Se si pensa che c’erano femministe che propagandavano l’eugenetica c’è da spaventarsi».
La sinistra però aveva un ruolo importante.
«L’avanguardia era di sinistra, molto politicizzata. Gropius, per proteggere la scuola, voleva tenere lontana la politica, ma era impossibile».
Come mai non mette mai in scena Klee e Kandinskij?
«Mi interessava il punto di vista dei ragazzi, volevo che le figure storiche fossero in secondo piano».
Descrive molto anche la discriminazione che nel Bauhaus c’era verso le donne.
«Gropius aveva dichiarato la scuola aperta a uomini e donne di ogni nazionalità e estrazione. Ma poi nella pratica non funzionò.
All’inizio c’era una presenza femminile del 50%. Gropius si prese paura, iniziò a indirizzarle verso i corsi di tessitura. E molte si tirarono indietro: nell’ultima Bauhaus, le donne non arrivavano all’8%».
Qual è la bellezza del Bauhaus, cos’è che ne ha costruito una gloria permanente?
«La sua forza innovativa, il modernismo: le loro realizzazioni, le loro costruzioni sembravano venire da un altro pianeta, erano oggetti alieni. E l’idealismo».