Dopo ventidue anni ci sarà un altro presidente, con ogni probabilità Andrea Sironi, già rettore dell’Università Bocconi. Guzzetti potrà occuparsi a tempo pieno delle sue passioni. Il basket che lo riporta alla pallacanestro Cantù e alle partite sull’asfalto sotto la pioggia, la montagna tra la Valtellina e le Dolomiti e Dio che prega immancabilmente un’ora al giorno. Lo chiamano di nascosto Barbetta di ferro, lui se la ride, dice che c’era un gerarca fascista con lo stesso soprannome, o forse no, ma per nulla al mondo rinuncerà a quel pelo rado, il suo «onore del mento». «Io sono antifascista», aggiunge battendo il palmo della mano sulla scrivania e ricorda che porta il nome di un prete, don Giuseppe Pagani, che per avere criticato il Concordato venne sbattuto nella più piccola parrocchia della curia. Racconta di tutto questo nella sala gialla accanto al suo ufficio, chiamata stanza della Confessione dal titolo del dipinto che un tempo ladominava.
Lei è stato ed è ancora un uomo di grande potere. Presidente della Lombardia, parlamentare, presidente dell’Acri e della fondazione Cariplo. Nell’esercitarlo che cosa lo ha guidato?
«Ho sempre interpretato il potere come impegno per dare risposte ai problemi della gente.
Vengo dalla dottrina sociale della Chiesa, avevo un professore, Francesco Vito, che insegnava l’economia al servizio dell’uomo. Prima viene l’uomo, ce lo rammenta anche Papa Francesco».
Ma il potere può essere spesso diabolico. Le ha fatto commettere degli sbagli?
«Ne ho fatti tanti, per ridurli ho cercato di circondarmi di persone capaci, migliori di me. L’ho imparato da Aldo Moro. E poi ci sono stati gli insegnamenti di mia nonna Carolina, uno soprattutto: sii sempre l’uomo che dice quel poco che sa e che fa quel poco che può».
Nella Dc ha militato nella corrente di Giovanni Marcora, il partigiano Albertino. Che cosa ha significato per lei?
«Ho sempre pensato che i giovani devono essere rivoluzionari, altrimenti nascono vecchi. C’erano Granelli in Lombardia, Pistelli a Firenze, Galloni a Roma, De Mita a Napoli, Misasi in Calabria. Volevamo cambiare il partito, allargare la base democratica, creare il centrosinistra, giungere al compromesso storico. Ci chiamavano i comunisti di sacrestia».
La politica ha cominciato ad affascinarla nel 1953. È vero che scappava dal collegio Bellarini di Seregno per andare ai comizi?
«Sì è successo».
Che cosa pensa oggi della politica italiana?
«Posso dirle la considerazione di un vecchio che ha attraversato molte stagioni politiche, economiche e sociali a partire dall’immediato dopoguerra, quando lo scontro era durissimo ma non è mai venuto meno il rispetto dell’avversario. Oggi un veleno si sta insinuando nella nostra vita quotidiana e intacca le radici della democrazia».
Chi sono coloro che seminano odio?
«Guardi, non mi faccia fare nomi. La verità è che l’odio non viene dal nulla. I bisogni reali non possono essere ignorati, vanno affrontati e risolti, non strumentalizzati. L’avversario non deve essere un nemico. La coesione sociale va recuperata perché è una condizione necessaria. Dobbiamo tornare al dialogo vero tra i cittadini e le istituzioni. Invece siamo divisi tra chi è sovranista e chi no, scordando che l’Europa è un valore che non possiamo dissipare. Si vince tutti o si perde tutti. Dobbiamo mettercelo bene in testa».
Come giudica il governo gialloverde? Qualche mese fa lei ha stoppato un blitz della Lega sulla Fondazione.
«Torni il 28 maggio e le risponderò, non voglio coinvolgere il mio ruolo di presidente con i miei pareri di uomo libero».
Nel 2001 Giulio Tremonti cercò di limitare l’autonomia delle fondazioni. Lei lo sconfisse davanti alla Corte costituzionale. Fu lui il suo più duro avversario?
«Si sbaglia, dopo la sentenza Tremonti mi assicurò che ci avrebbe rispettati e da allora i nostri rapporti furono di grande e reciproca correttezza. In realtà dietro al ministro c’erano altri politici. La Fondazione Cariplo era il loro oggetto del desiderio, non poterla controllare sul territorio che rappresentava il cuore del loro potere, li faceva impazzire».
Alla fine, tuttavia, il grande abbraccio Stato-Fondazioni è avvenuto con la Cassa depositi e prestiti. Quale bilancio fa di questa esperienza?
«Credo sarà positivo fino a quando ognuno starà al suo posto. Voglio dialogare con chi governa, ma pretendo il rispetto dei limiti stabiliti dallo statuto e mi opporrò sempre a operazioni scriteriate, come quella di Alitalia, per esempio. Abbiamo comunque uno strumento di garanzia, il voto di blocco».
Lei ha visto i preti difendere i contadini analfabeti. Che cosa ha imparato dalla povertà?
«Non ho fatto la fame, i miei genitori erano commercianti. Ma ho incontrato la povertà nella campagna della Cascina Piatti di Turate, la solidarietà tra gli ultimi, i preti che hanno creato la mutua e le cooperative di consumo che facevano credito ai contadini tra un raccolto e l’altro. Un welfare dal basso al quale la Fondazione si è ispirata».
Così avete realizzato lo stato sociale di comunità.
«Sa che a Milano ci sono 21mila bambini in povertà assoluta?
Potevamo alzare gli occhi al cielo o inventare qualcosa. Abbiamo scelto la seconda strada mettendo attorno allo stesso tavolo enti pubblici, terzo settore, aziende e cittadini. In cinque anni il programma di welfare di comunità ha impegnato trentasei milioni e mezzo di euro, raggiunto quasi 300mila persone e ingaggiato 1700 imprese. La comunità che sembrava un concetto astratto si è trasformata in qualcosa di molto concreto per le famiglie, i bambini, i giovani e gli anziani che hanno bisogno».
Che cosa farà dal 28 maggio?
«Salirò per qualche tempo in montagna, non in convento come qualcuno ha detto. Anche se mi spiace non poterlo fare. Andrò più spesso al priorato di Bose dal mio amico Enzo Bianchi».
Chi è Dio nella sua mente?
«Qualcuno che ha il cuore più grande degli uomini e che quando sbandi ti aspetta».
Borges riteneva la teologia una branca fantascientifica della letteratura. Immagino che lei sia in disaccordo con la teoria: è assurdo quindi credo.
«Perché assurdo? Io credo nell’aldilà come ci ha insegnato Gesù Cristo. Anche per questo voglio fermarmi e meditare. Ho una stanza piena di libri accatastati negli anni e che voglio finalmente leggere. E sa una cosa? Ragiono quotidianamente sulla morte, per abituarmi a quando arriverò là. Mi sono dato un traguardo di cinque anni».
Norberto Bobbio diceva che arrivati a una certa età si è stufi di vivere.
«Non sono stanco di vivere. Ma penso che la mia funzione su questa terra sia esaurita».
Che cosa si porterà a casa dall’ufficio?
«Ricordi. Anzi una cosa c’è, gliela vado a prendere, così la vede».