Corriere della Sera, 4 aprile 2019
I leggings sotto accusa in America
Gli abiti che indossiamo raccontano molto di noi, più di quanto pensi la maggior parte delle persone. Inevitabilmente, indossare – o non indossare, nel caso per esempio del velo islamico – qualcosa può diventare un atto politico. Era successo, vent’anni fa esatti, con i jeans: una sentenza della Cassazione risultata ai più incomprensibile aveva assolto un uomo dall’accusa di stupro perché la vittima indossava i jeans, indumento che secondo la Suprema Corte è «quasi impossibile sfilare anche in parte… senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa». La reazione fu per una volta bipartisan e fu così che indossare i jeans diventò, per moltissime donne dopo quella sentenza, un modo di protestare contro la decisione.
Da qualche giorno però anche i jeans sono stati scavalcati, improvvisamente obsoleti come segno di indipendenza: ora l’indumento sotto accusa è un altro, i leggings. Cioè i pantaloni attillati come una calzamaglia: dei collant di stoffa tagliati alla caviglia, popolarissimi per praticità e versatilità.
Tutta colpa della lettera al direttore di The Observer, un giornale studentesco dell’università americana di Notre Dame nell’Indiana: nel messaggio una mamma cattolica di quattro figli invitava le studentesse a non indossare più i leggings da lei considerati troppo aderenti e rivelatori, e optare invece per i meno appariscenti blue jeans. «I leggings sono così nudi, così aderenti: lasciano esposte. Non potreste pensare alle madri di figli maschi la prossima volta che andate a fare shopping? Perché non mettete i jeans invece?».
L’idea che nel 2019 i leggings turbano gli adolescenti e vanno dunque tenuti nell’armadio non poteva non scatenare immediate proteste e l’inevitabile passaparola via social media attraverso i campus americani: ragazze (e anche alcuni ragazzi, in segno di solidarietà) in leggings, per ribadire la propria libertà di vestirsi come meglio credono.
Non è una polemica sterile di quelle che alle volte nascono nei campus americani, dove la libertà di parola e il politicamente corretto convivono in un clima di quotidiana tensione: la polarizzazione della politica statunitense dell’era Trump ha trasformato anche il modo di vestire in un’uniforme. I cappellini rossi con la scritta «Make America Great Again», «Rendi di nuovo grande l’America», simbolo della campagna di Trump del 2016, sono diventati da una parte il segno di riconoscimento dei fan del presidente, e dall’altra la calamita di episodi spiacevoli: un uomo cacciato da un bar di New York nel 2017 perché indossava il «MAGA hat» fece causa per discriminazione ma un giudice gli diede torto. Le categorie protette dalla legge sono infatti definite chiaramente – non si può discriminare sulla base di età, cittadinanza, razza, disabilità, genere, identità, stato civile, gravidanza, religione, orientamento sessuale, e non si possono discriminare veterani o membri delle forze armate. Le opinioni politiche non appartengono a una categoria protetta dalla legge, dunque è possibile (per un privato) discriminare in base a esse.
Alla vigilia di una campagna elettorale, quella del 2020, che di fatto è già cominciata, la discussione sui leggings non è una semplice bizzarria ma potrebbe essere soltanto la prima di una serie: mai come adesso la moda può diventare – anche – una questione politica.