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 2019  aprile 03 Mercoledì calendario

L’Aquila 10 anni dopo: chiuse 200 attività, 5mila studenti in meno

È soprattutto a sera che L’Aquila torna ad essere una città terremotata, per tutti. Quando il buio cala, come un sipario, tanto sulle rovine immobili, quanto sulle facciate restaurate. Quinte teatrali, splendide e vuote. E senza l’illuminazione, solo i fari dei cantieri accompagnano sparuti passanti. Dieci anni dopo il sisma, che schiacciò 309 vite e fece 80mila sfollati, il centro storico ritrova stemmi e affreschi. Ma se si esce dall’asse centrale o ci si incammina verso le frazioni, una successione di tubi e transenne, porte sprangate e case pregne delle loro macerie riporta a quella notte del 6 aprile 2009. Nel silenzio di una città, che ha perso abitanti – mai rientrati o sparsi nelle casette d’emergenza (dove vivono ancora in 6.300); con 5mila studenti in meno e senza molte botteghe. Ma «è una città sopravvissuta», si incoraggiano cittadini e amministratori.
«Noi giriamo con la torcia in borsa e gli stivali da cantiere: in questi anni si è persa la normalità». Roberta Gargano è appena rientrata nella sua casa dagli stucchi azzurri, attaccata ad edifici bloccati nei ponteggi. Siamo di fronte al Palazzo del Governo, che con la scritta spezzata divenne il simbolo del trauma: ora è il più avanzato cantiere della ricostruzione pubblica, che arranca più di quella privata (per la prima, sono stati erogati 2 mld; per la seconda, 5 mld e mezzo: 8.264 i cantieri conclusi su 24.947 pratiche). La normalità perduta de L’Aquila è soprattutto al di là delle transenne. Case sventrate; brandelli, dove resiste un mobiletto da bagno; portoni spalancati, pietre che continuano a schiacciare piatti, mobili, letti. La differenza da quella notte sono le impalcature: una montagna di tubi, che all’inizio è stata un costo (circa 200 mln in puntellamenti); e ora è un problema, per lo smaltimento. Un’enorme griglia imprigiona la scuola elementare “E. De Amicis”, per cui cantarono le “Amiche dell’Abruzzo”. E a pochi metri, imbalsamato è anche il liceo classico “D.Cotugno”, sparpagliato in cinque sedi. Scuole che, «in nome della sicurezza», la Giunta non vuole far tornare negli edifici storici. Contribuendo, però, ad aggravare il vuoto del centro, che ha sì riscoperto i suoi tesori, dai palazzi nobiliari alle basiliche simbolo – San Bernardino, Collemaggio, Anime Sante, restaurate anche con finanziamenti della Francia, o contributi come quello dell’Eni – ma ha perso parte della vita. Decine di cartelli “vendesi” e “affittasi” pendono da facciate rimesse a nuovo, con soldi pubblici. Ed è questo deserto che distoglie i commercianti dal rientro nelle vecchie sedi. «Il tessuto economico si è atomizzato in un perimetro più ampio del raccordo anulare», spiega Celso Cioni, direttore Confcommercio Abruzzo. Prima, ogni porta era un negozio; ora solo 87 su mille sono ritornate con gli incentivi del bando “Fare centro”. «In dieci anni, 200 attività hanno chiuso. Altre sono in centri commerciali e all’interno delle mura ora stanno tornando le banche. Ma senza uffici, scuole, poste – spiega – sono spariti i motivi che richiamavano ogni giorno migliaia di persone». Solo i locali della movida registrano nel weekend il tutto esaurito, per gli altri i clienti sono merce rara. Così l’uso di fondi non assegnati – 151 mln dei 219 deliberati dal Cipe – insieme ad un’accelerazione sulla ricostruzione pubblica è la sollecitazione delle pmi, preoccupate dalla vertenza sulle tasse (vedi altro pezzo). Il sindaco, Pier Luigi Biondi, sintetizza con un ossimoro le necessità: «misure straordinarie, per questioni ordinarie. L’errore fu proclamare la fine dell’emergenza sei anni fa». Per reclamare un’attenzione «non intermittente» dal Governo, ha riconsegnato la fascia, per poi ritirare le dimissioni con la garanzia di 10 mln: «uno stanziamento per approvare il bilancio di previsione. Ma è un bicchier d’acqua, per chi sta morendo di sete», avverte, pensando al 2020 e alla fine dei finanziamenti (2 mld residui) con la necessità di «riprogrammare il fabbisogno di un’intera città in ricostruzione, anche se tanto è stato fatto». 
Questo “tanto” non lo vede chi ancora vive nelle “casette di Berlusconi”, come sono chiamate le new town. Edifici, dove «ci sono infiltrazioni, immondizia e topi», si infervora Lucia, che vive a Bazzano senza prospettive, «visto che ero in affitto in alloggi popolari. Vogliono lasciarci qui?». A restare fino alla fine dei suoi giorni nelle casette d’emergenza si è invece rassegnata la signora Anna ad Onna, mentre si perde con lo sguardo in quel che resta del borgo dove è vissuta per settant’anni. Dieci anni dopo, solo un paio di gru svettano in cielo. Sotto, restano le macerie e un lutto rinnovato ad ogni passo. Davanti al cippo, con fiori e lumini; nel vuoto di una casa demolita; davanti al balcone rimasto in piedi su un muro crollato. Ad Onna, il futuro è nei banchi della scuola dell’infanzia, che tutta la comunità difende dal rischio chiusura. «Senza questi bimbi, resterebbe solo dolore», sintetizza Antonella Foresta. Sulla distruzione di Onna, come di Paganica e degli altri borghi si accesero i riflettori del mondo, che qui si ritrovò durante il G7 e promise aiuti. Mai arrivati dagli Stati Uniti. 
Ora la luce del sole mostra con ancora più crudezza la malinconia delle rovine. Un velo che avvolge pure i progressi: la chiesa ricostruita ad Onna, due case riaperte a Paganica. Mentre il silenzio ricorda tanto i morti, quanto gli assenti. Più che l’anagrafe – perché molti hanno conservato la residenza per non perdere finanziamenti – ricerche sui consumi di pane e latte confermano la diminuzione degli abitanti. E così un capoluogo di Regione si trova a lottare contro lo spopolamento, cercando nuove strade, come il turismo; e coinvolgendo gli universitari, alcuni dei quali realizzeranno il memoriale della Casa dello studente. «Gli studenti vedono le macerie, ma vedono anche quello che sarà. E L’Aquila – sottolinea la rettrice Paola Inverardi – ha bisogno di questo». Di vita nuova.