Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 03 Mercoledì calendario

Così un albero diventa millenario

Corteccia d’acciaio e crescita al rallentatore assicurano lunga vita a un albero ma non sono sufficienti per farlo arrivare a mille anni: un traguardo esclusivo riservato a un numero di esemplari che, almeno in Europa, si conta sulle dita di una mano. Non ci sono predestinati nel circolo degli highlander vegetali: i capricci del clima, la mano dell’uomo, fulmini e tempeste mettono a rischio anche la pianta più resistente. Ora una ricerca promossa dal Parco nazionale del Pollino e coordinata dall’Università della Tuscia (a breve sulla rivista Anthropocene) ha tracciato l’identikit dell’albero che può farcela a superare i tre zeri. «Ci sono regole che valgono per tutte le specie, come lo spessore degli anelli, che di solito non supera il mezzo millimetro, e determina un incremento del diametro che in questi organismi si sviluppa a un ritmo di circa un millimetro all’anno», spiega Gianluca Piovesan, docente di Dendrologia (studio delle piante legnose) all’ateneo viterbese e primo autore dello studio.
Il modello esaminato per definire le caratteristiche di questi monumenti della natura è Italus, il pino loricato di oltre 1200 anni scoperto nel parco del Pollino sul confine tra Calabria e Basilicata e datato con le più recenti tecnologie al radiocarbonio. Il Pinus heldreichii si è dimostrata una delle specie più longeve dell’area mediterranea. «Ci sono dei vantaggi oggettivi associati alle dimensioni ridotte: una pianta molto grande è difficile che diventi millenaria perché sarà più vulnerabile al vento e a eventuali periodi di siccità nei quali potrebbe non riuscire a portare l’acqua ad altezze importanti – prosegue Piovesan – Gli alberi vecchi non sono i più alti, al contrario hanno una cima troncata o secca che ne ostacola la crescita in verticale aumentandone però le possibilità di sopravvivenza al tempo».
Anche l’altitudine conta: molti di questi quota mille sono individui solitari che vivono su rupi a una quota superiore ai 1850 metri, un ambiente che garantisce una stagione vegetativa ridotta e condizioni ideali per invecchiare a passo di lumaca. «Anche altre specie che si trovano più vicino al livello del mare, come l’ulivo o il ginepro, possono raggiungere età ragguardevoli ma in questo caso è la scarsa fertilità a condizionarne l’età – aggiunge Piovesan – Gli alberi che crescono più velocemente grazie a terreni più fertili diventano monumentali in tempi più brevi ma non raggiungono età millenarie. Specie come faggio, platano, leccio e acero hanno un destino già segnato e in media non superano i 600 anni perché il legno del tronco è più degradabile mentre quello del pino viene protetto dalla resina che tiene alla larga insetti e malattie».
Secondo la ricerca, molti degli alberi più vecchi, almeno a partire da metà Ottocento, sono sincronizzati come un orologio svizzero con l’oscillazione atlantica multi- decennale, un indice che riflette l’andamento ciclico della temperatura dell’oceano e che circa ogni 30 anni fa inversione di marcia. Quando l’acqua è più calda le piante crescono a maggior velocità, quando si raffredda la procedono con più calma.
«Questi organismi hanno una notevole capacità di acclimatamento, gli alberi vecchi d’Europa hanno attraversato indenni tre grandi cambiamenti climatici: il periodo caldo medievale, la piccola era glaciale iniziata intorno al Trecento e che termina nel 1850 quando inizia la fase attuale di riscaldamento – conclude Piovesan – Oggi, grazie all’innalzamento delle temperature, molti di questi esemplari hanno ripreso a svilupparsi in modo vigoroso uscendo da un preoccupante deperimento subito tra gli anni ’50 e ‘70 dovuto non solo al periodo negativo della temperatura dell’Oceano Atlantico ma con ogni probabilità anche a uno stress indotto da fattori come l’inquinamento e l’uso indiscriminato del territorio».
In Italia l’habitat prediletto di questi monumenti della natura corre lungo l’asse dell’Appennino, dalle foreste tosco- emiliane all’Aspromonte. Il Parco nazionale del Pollino, per esempio, è una vera e propria riserva di piante antiche. Oltre al pino loricato, nell’area protetta oggi gli scienziati studiano faggi, querce e abeti bianchi che sfiorano i 500 anni.