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 2019  aprile 03 Mercoledì calendario

Sgarbi boccia l’arte del Novecento

«Non potrò mai dimenticare l’emozione di Santa Maria in Colle con la luce chiara e diffusa che le davano le finestre aperte sulla valle attraversata dal Brenta. All’aprirsi di una porta avresti detto potesse entrare, per trascrivere i versi appena concepiti, Iacopo Vittorelli, l’ultimo arcade». Incontriamo queste parole a pagina 208 del secondo volume del Novecento (La nave di Teseo) di Vittorio Sgarbi, quando l’autore nel suo professionale vagabondaggio decide di fermarsi a Bassano per ammirare le architetture del Palladio e i dipinti di Jacopo Da Ponte. Ma non è di questo che qui mi interessa dire. La citazione mi consente di scoprire molto di Sgarbi (a parte la natura longhiana del suo fare critica d’arte come occasione di racconto e di scrittura narrativa – ma questo lo sapevo).
Quello che ho scoperto è il tono poeticistico, la musicalità della prosa di Sgarbi strettamente interdipendente con il suo più generale convincimento (al quale aderisce per tutta la vita) che l’arte ubbidisce al suo fine se è poesia, e la poesia è qualcosa che una volta corteggiava il sublime e che oggi lui (Sgarbi) chiama anima (parola ricorrente decine di volte in questo suo Novecento). Insomma l’arte deve avere il respiro metafisico, se non lo ha non esiste (o almeno per lui non è arte). Sgarbi condivide i testi dell’idealismo italiano che sono stati una decisiva guida per comprendere e amare la grande arte italiana (dal Medioevo al Rinascimento e finanche – ma con qualche incertezza – il Barocco) ma anche un ostacolo per prepararci a sbirciare altri orizzonti. Ora trovare quel “respiro metafisico” nelle opere della pittura e della scultura italiana degli ultimi cento anni è una impresa ardua (forse impossibile), fatta eccezione per i soliti tre o quattro pittori (capostipite Morandi) che si sono nutriti e ispirati alla grande arte classica, in particolare al nostro (immenso) Rinascimento. E di lì ci arriva la pittura metafisica e, contemporaneamente e dopo, le nature morte e i paesaggi e i fiori di Morandi.
Dunque, Vittorio Sgarbi critico d’arte di scuola longhiana – di penna sicura tra Caravaggio, Piero della Francesca e Giovanni Bellini – è di fronte alla pittura (e non solo) italiana del dopoguerra. E qui, ancora giovanissimo, è ansioso di provare la sua maestria (arricchita da una buona dose di autostima) collaudata nell’osservazione e nell’analisi della grande pittura dei secoli precedenti. E ahimè! non tarda ad arrivare (e a farlo patire) una amara delusione. Dopo Morandi, de Pisis, de Chirico metafisico, forse Modigliani e i loro pochi (pochissimi) sodali e uguali cosa aveva a che fare lui (Sgarbi), intellettuale di intenti crociani, uso a giudicare sul bisticcio poesia non poesia, con opere d’arte costruite su ricetta? Neoavanguardia, Transavanguardia, Pop Art, Arte povera, nate su predeterminazioni di astuti critici (magari in rapporto o di intesa con la bulimia del grande mercato americano), sfuggivano alla sua possibilità di condivisione. L’opera d’arte (continuava a dirsi o semplicemente ripetersi) è un unicum dotato di anima, che nasce e cresce su urgenze (pensieri e sentimenti) assolutamente interne all’autore e dunque inconciliabile con l’arte di gruppo inscenata da una prescrittività affatto esterna e autoritaria. Vittorio Sgarbi era sconsolato, forse disperato, apparendogli il coté forte del panorama artistico dopoguerresco (il dopoguerra era anche il suo tempo) incapace di commuoverlo.
Non si arrende e insiste: e trova, confusi nella calca e nel disordine, due pittori, certo eccentrici e di lato, Leonardo Cremonini e Domenico Gnoli. Ma non bastavano a colmare la sua ansia di scoperta. E Sgarbi fruga, e fruga ancora, e trova un folto gruppo di artisti piccoli o meno grandi di provincia (a noi inesperti sconosciuti) cui dedica una parte consistente del suo Novecento – artisti certo inconsapevoli (al contrario di Morandi) di vivere in un tempo storico assolutamente altro, profondamente diverso da quello in cui avevano operato gli antichi antenati e i loro vicini predecessori, ma capaci di amare l’arte classica e afferrarne i risvolti nascosti tanto da dar vita (realizzare) opere nelle quali Sgarbi non ha difficoltà a intravedere tracce del “respiro metafisico” (che marca la grande pittura).
Sgarbi vive come se stesse scontando una punizione ingiusta, il non avere potuto aggirarsi per le strade dell’arte del dopoguerra (che è anche il tempo della sua maturità) con lo stesso piacere con cui ha percorso e percorre (utile per sé e per gli altri) lo straordinario mondo dei secoli precedenti (dal Duecento all’Ottocento) – quel piacere che sperimentato e sentito dentro la propria carne, scrive Leopardi nello Zibaldone, ci rallegra e “accresce la nostra vitalità”.