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Ci sono destini che si oppongono a ogni prevedibilità, e quello della scrittrice americana Mary Higgins Clark è di sicuro fra questi. La sua fortuna eccezionale, testimoniata da più di trecento milioni di libri venduti nel mondo, è cresciuta sul presupposto di un avvio funestato dai disastri. Nata nel 1927, Mary restò orfana da piccola, patì la miseria, perse da giovane il marito e si occupò da sola dei cinque figli barcamenandosi tra umili mestieri.
Ciò non le ha impedito di diventare la regina assoluta del noir: pur affannandosi tra mille incombenze, non ha mai smesso di scrivere. Oggi è un’ultranovantenne ricca e potente che insiste nel sorprenderci per lucidità e tensione della prosa, come dimostra il thriller L’ultimo ballo, in uscita per Sperling & Kupfer. Un giorno il cadavere della diciottenne Kerry viene ritrovato dai suoi genitori nella piscina della loro villa, e attorno al delitto s’aggirano un boyfriend d’indole aggressiva, un brillante ispettore di polizia, un dolce ritardato mentale che ha assistito all’omicidio ma è troppo spaventato per confessarlo e la sorella della vittima, Aline, acuta e tenace nelle proprie indagini segrete come lo sono sempre le vigorose e affascinanti donne detective create da Mary.
«Nelle prime pagine», avverte Higgins Clark parlando al telefono da New York con voce pimpante, «l’angoscia di un padre e di una madre che rientrano a casa e trovano la figlia morta aggancia subito il lettore, il quale deve sentire che in quella piscina poteva esserci suo figlio. Voglio anche fargli percepire il turbamento di una sorella che si chiede: perché non c’ero? Se solo io mi fossi trovata lì… Ah, lo strazio di quel "se solo"!
Chiunque riconosce il rovello di un’opportunità perduta».
Perché le piace il noir, signora Higgins Clark?
«È un amore congenito. Da piccola ero brava a sciogliere i nodi dei polizieschi: capivo l’identità dell’assassino prima che fosse rivelata. Coglievo segni, tracce, frasi sospette. A un tratto mi sono detta: vediamo se sono in grado di scrivere un giallo, ed è nato Dove sono i bambini?».
Lo spunto del libro fu un caso celebre dell’America anni ’60: quello di Alice Crimmins, accusata di aver eliminato i figli. I suoi thriller s’ispirano a episodi reali?
«Posso prendere idee da articoli di cronaca nera, ma li traduco in racconti miei. All’epoca mi aveva colpito il fatto che una giovane fosse stata incriminata per l’uccisione dei suoi bambini. Poi, però, ho inventato molto su quella premessa. Nella mia versione Alice, rinominata Ruth, è innocente. Chissà se fu così. Nulla venne chiarito e gli Stati Uniti si divisero tra innocentisti e colpevolisti».
Qual è la sua tecnica per mantenere alta la suspence?
«Capitoli succinti, frasi corte e concrete, azione incalzante, caratteri femminili amabili e decisi. La regola chiave sta nella conquista immediata del lettore. Se si riempiono venti pagine con una descrizione, si avrà perso il lettore dopo le prime sei. Per un capitolo bastano due pagine ed è necessario lasciare un elemento irrisolto alla fine. Adoro sentirmi dire: ho letto il tuo dannato libro fino alle tre del mattino e il giorno dopo ero stanco morto».
La sua vita è stata assai movimentata: ha fatto la centralinista, la babysitter, la segretaria, la hostess… Com’è approdata alla scrittura?
«Già a sei anni scrivevo poemetti e racconti, e a ventuno, appena sposata, frequentavo un corso per scrittori alla New York University. Volevo diventare una professionista e ho continuato a scrivere pur facendo altri lavori. Non mi ha mai fermato nessuno. A quel tempo il mercato richiedeva solo saggistica e il primo testo che mi riuscì di pubblicare riguardava George Washington. La svolta fu Dove sono i bambini? e quando divenni famosa quel volume su Washington, prima passato inosservato, si trasformò in un bestseller».
Crede che siano cambiati lo stile e l’ottica del noir negli autori delle ultime generazioni?
«C’è stata l’irruzione massiccia della tecnologia: se non si è aggiornati si fallisce. Per una persona della mia età è importante tenersi al passo coi tempi. Esempio: non potrò più parlare di qualcuno che a un certo punto manda un fax…».
Non pensa che scrittrici quali Paula Hawkins, autrice de "La ragazza del treno", o Alafair Burke, che ha firmato alcuni libri insieme a lei, abbiano rigenerato il noir con nuove prospettive psicologiche?
«Ammiro Alafair e solo con lei posso scrivere romanzi. Ha il giusto atteggiamento nell’approfondire i caratteri. Come lettrice ho amato molto P.D. James, nelle cui trame meravigliose gli scavi psicologici sono sempre ben armati. Le scrittrici sono più indirette e sottili degli uomini. L’approccio maschile è più violento. Esistono autori ottimi, ma quando li leggo sento subito il maschio».
Lei evita per principio violenza e sesso.
«Sono cose della vita che nei miei plot avvengono sempre fuori campo, e non ho mai perso un fan per questo motivo. Certe visioni devono costruirsi nelle menti dei lettori. Non vanno spiattellate in maniera cruenta. L’implicito dilata l’immaginazione con più pervicacia dell’esplicito».
È vero che ai vertici delle sue letture preferite c’è "Orgoglio e Pregiudizio"?
«Jane Austen è immensa. Le sue figure femminili esprimono energia e positività. Non si lasciano intimidire e affrontano a testa alta gli eventi. Parallelamente risultano empatiche e gradevoli. Sono il modello delle mie eroine. Suppongo che queste "anti- L’amore bugiardo" (dal titolo del thriller bestseller scritto da Gillian Flynn alcuni anni fa, con una protagonista perfida, ndr) siano il segreto della mia longevità».