Ci spieghi.
«In Francia le 35 ore sono diventate legge quindici anni fa. Altro che Escoffier, in confronto ai francesi noi siamo ancora nel Medioevo. Avremmo bisogno di norme specifiche, dedicate, ma la legge non ci dà chance. I ristoratori cercano mille sistemi per sfuggire alla strettoia delle otto ore cinque giorni la settimana. Per chiudere due giorni devi stare bene economicamente... Oppure non hai abbastanza lavoro e allora chiudere due giorni ti conviene! Vorrei un modello di ristorazione sostenibile. I ristoranti non guadagnano, economicamente parlando sono un disastro. Questa situazione impedisce di adeguare gli stipendi dei ragazzi».
Ma dov’è finito il Cracco implacabile che ha gettato nella disperazione decine di aspiranti chef?
«Finito insieme alla mia presenza televisiva... Se il format prevede che tu faccia il cattivo, tu fai il cattivo. Vedere trattare male una persona fa sempre effetto.
Possibile che non si capisca che è un gioco? E invece molta gente pensa che tutto quello che si vede in tv sia vero, mentre si tratta di spettacolo. Lo shock piace, se vedono che funziona, te lo fanno rifare».
Tra Masterchef e Hell’s kitchen il modello non è cambiato granché.
«Rispetto a quello di Ramsay era diverso, dopo i primi due anni abbiamo provato a prendere le distanze. Ma i picchi di ascolto coincidevano sempre con le sfuriate. Mi hanno detto, ci spiace Carlo, ma dobbiamo fare quello che funziona di più. Ho resistito ancora un po’, poi ho smesso. Fare televisione mi ha permesso di realizzare il mio sogno lavorativo. E oggi chi viene a conoscermi al ristorante capisce che sono una persona ben diversa dal mio personaggio televisivo».
Sta dicendo che il nonnismo in cucina non esiste?
«Il passaggio tra la mia generazione e quella di oggi è stato epocale. Una volta non avevi riferimenti, prendevi per buono tutto, accettavi le imposizioni come parte del mestiere. Adesso i ragazzi hanno dei modelli, si confrontano, viaggiano tanto, si scambiano le esperienze. Se uno non è bravo lo mando via, che senso ha tenermi uno se non lavora bene? Poi certo, capita che lo chef se la prenda col primo che passa, esattamente come fa un capufficio, un direttore, un primario. Ti arrabbi perché hanno bruciato una carne, hanno sprecato un ingrediente. Mi arrabbio per il gesto, non col ragazzo in sé».
Quindi Petrini ha torto.
«Diciamo che il problema è in gran parte superato, ci sarà l’un per cento che maltratta i sottoposti. I rapporti sono cambiati, anche chi aveva la fama di duro si è ammorbidito. Far crescere la brigata fa lavorare tutti meglio, la fatica viene condivisa. Le condizioni sono oggettivamente cambiate, dall’aria condizionata in cucina alle tutele sindacali. Ho scoperto qualche tempo fa che uno dei ristoranti in cui sono stato mi ha versato un giorno di contributi per un anno di lavoro. Oggi non succede, e se dovesse succedere lo puoi denunciare. Ci sono tanti ristoranti, è difficile che un cuoco bravo resti disoccupato... Ripeto, il problema gigantesco oggi sono gli orari e la tassazione. Ma lo sa che in Svizzera alle 23 tirano giù la claire e se non lo fai la polizia ti chiude il locale?».
Gli italiani sono tiratardi.
«Altroché, se ne vanno alle due e tu devi tenere il locale aperto, oppure prenotano per dieci e poi non si presentano. Nei Paesi civili, al momento della prenotazione devi dare la carta di credito e se non arrivi ti trattengono il costo della cena, perché è mancato incasso e tu i ragazzi li devi pagare meglio che puoi, per farli stare con te».
Lei è stato un giovane cuoco maltrattato?
«Ho passato le mie. Non tanto qui in Italia. I francesi erano i più duri in assoluto, ma mi sembra che anche loro abbiano cambiato atteggiamento. È il mondo che va avanti, per fortuna».