Corriere della Sera, 2 aprile 2019
Un saggio sulla psicologia collettiva
Hyppolite Taine, nelle Origini della Francia contemporanea (1875-1893) pubblicato in Italia da Adelphi, fece osservazioni molto acute sui comportamenti collettivi. Tant’è che – in La ragione populista (Laterza) – Ernesto Laclau ha sostenuto che Taine sia stato il primo ad afferrare alcuni caratteri fondamentali della «folla». Mettiamolo subito in chiaro: di individui che ad un tratto si radunano per dare sfogo al proprio risentimento o per imporre una svolta politica è piena la storia dell’umanità. Ma il fenomeno della folla che si adira e parla con una voce sola – osservava Taine – ha assunto caratteri peculiari tra Sei e Settecento, nella lunga stagione delle rivoluzioni. Per poi riproporsi, a fine Ottocento (a seguito della Comune di Parigi), con tratti definitivi.
È in quel preciso momento storico, fine Ottocento appunto, che entra in scena la «folla» vera e propria, antenata, ma parente stretta del «popolo» che ispira i populisti di oggi. E Michela Nacci ha messo a fuoco questo particolare frangente in un libro di grandissimo interesse, Il volto della folla. Soggetti collettivi, democrazia, individuo, che il Mulino darà alle stampe nei prossimi giorni. Quali le caratteristiche della folla tardo ottocentesca studiata da Michela Nacci? «Non ragiona, non discute, non ascolta le opinioni diverse dalla sua, manifesta gli istinti da cui è mossa, si fa trasportare dagli affetti e dalle passioni che non prova neppure a controllare, ama o odia senza vie di mezzo, nutre una sorta di venerazione nei confronti del leader, cerca il capro espiatorio, forma un insieme compatto che ha bisogno di confermare continuamente la propria compattezza, emargina ed espelle chi dissente, definisce un nemico esterno e basa sulla lotta a quel nemico la sua unità, sa di essere incompetente ma vuole che la sua opinione conti, critica la politica, i politici e gli esperti, vuole eliminare ogni mediazione ed esprimersi direttamente, rivendica l’egualitarismo come valore».
È per molti versi simile – si diceva – al popolo degli attuali populisti, è quel soggetto di cui si dice comunemente che «vota con la pancia». È un «individuo gigantesco» composto da innumerevoli piccoli individui. Per definirla nacque la psicologia collettiva e chi l’ha studiata percepisce che la folla non è un’entità sociale qualunque: «È un soggetto eccentrico, pericoloso, anomalo; le coppie normale/anormale, sano/malato, e consueto/eccezionale decidono del giudizio sulla folla e i suoi comportamenti». Tre operazioni vengono praticate su di essa in modo sistematico: «La patologizzazione (la folla come ammalata, lo studioso come medico), la naturalizzazione (la folla come determinata dalla natura e dalla sua propria natura) e l’eccezionalizzazione (la folla come formazione non abituale, ma eccezionale appunto, all’interno della società, portatrice di un comportamento che non appartiene alla norma ma ne fuoriesce e la contraddice)».
Il primo a «scoprirla» è, nel 1895 (l’anno di nascita del cinema), Gustave Le Bon con il libro Psicologia delle folle, pubblicato in Italia dalle edizioni Tea. Ma la troviamo contemporaneamente (poco prima o poco dopo) nei romanzi, racconti e poesie dell’Émile Zola di Germinale (Feltrinelli), dell’Edmondo De Amicis di Primo Maggio (Garzanti), di Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, del Fëdor Dostoevskij de Il sosia (Garzanti), di Guy De Maupassant, di Joris-Karl Huysmans (come «moltitudine religiosa» in Le folle di Lourdes pubblicato da Medusa). Nelle pagine di questi autori «la folla non parla; inveisce, acclama, urla». Non dà il suo consenso, «applaude freneticamente». Non appoggia una tesi: «Adora chi la propone». E se non applaude e non adora, «allora odia». Non prende in esame alcunché per distinguere: «Accetta o respinge in blocco». La folla «è unanime e si esprime con una voce sola». La folla «reagisce al capo, alle sue parole, al tono e all’enfasi piuttosto che al contenuto» e «non sceglie mai la via più moderata». Né il capo, né la folla ragionano: «Provano emozioni, giocano con le emozioni, le sollevano, usano le parole per infiammare gli animi ed eccitarli». Questo gioco poi è sempre al rialzo: «Non punta a trovare una via di mezzo nello sciopero e nella lotta contro il padrone, ma va dietro al capo più esagitato e più crudele». È «una gara nella quale vincono immancabilmente il proposito più efferato, la proposta più farneticante, la soluzione più sanguinaria». Per esempio, a quei tempi, l’obiettivo dello sciopero passa dalla difesa del salario alla decisione di giustiziare i dirigenti, fino all’idea di distruggere le chiese.
L’unico rimedio in questa stagione di imbarbarimento consiste nella capacità di isolarsi. «Quante volte», scrive Maupassant in Sull’acqua (Salani), «ho constatato che l’intelligenza cresce e si innalza quando si è da soli, e che diminuisce e si abbassa quando ci si mischia con gli altri… I contatti, le idee diffuse, tutto quello che si dice, tutto quello che si è costretti ad ascoltare, capire e rispondere, agiscono sul pensiero». E il pensiero, nella folla, si immiserisce. Un «flusso e riflusso di idee va di testa in testa, di casa in casa, di strada in strada, di popolo in popolo», prosegue Maupassant, «e per ogni agglomerazione di tanti individui si stabilisce un livello medio di intelligenza». Sempre più basso.
L’individuo, scrive Michela Nacci, «non si definisce più per la differenza che manifesta rispetto agli altri e per la sua specifica originalità; differenza e originalità scompaiono entrambe nel mondo della folla». La folla «rende l’individuo simile agli altri, uguale agli altri, non riconoscibile dagli altri». La folla non permette più all’individuo di considerarsi unico, particolare, inconfondibile, «tutti aggettivi che lo hanno definito e che continuiamo ad attribuire (o che ci piacerebbe continuare ad attribuire) a ciascuno di noi».
La folla, scrive Michela Nacci, viene costruita come soggetto anomalo perché diverso dal soggetto individuale. È il tema su cui si è soffermato Scipio Sighele in La folla delinquente (edito da La vita felice): «La folla», secondo Sighele, «è folle dal momento che non possiede la ragione, propria unicamente del singolo; chi studia la folla deve, di conseguenza, indossare i panni del medico». Per questi autori la folla, nota Michela Nacci, ha fede in credenze false e contrarie a ogni evidenza. Tra «dubbiosi maniaci, ossessivi, impulsivi e tra i criminali, si riscontrano i tratti del carattere isterico». E la folla «possiede molte delle caratteristiche che i criminologi attribuiscono al criminale». Ma da dove vengono queste caratteristiche? Sono «razza e nazione» che le «determinano»: abbiamo folle latine, centralizzatrici e desiderose di Stato, folle anglosassoni che si rivolgono all’iniziativa privata, folle francesi che vogliono prima di tutto l’eguaglianza e folle inglesi che tengono soprattutto alla libertà. Sia Sighele, che Gabriel Tarde (autore di L’opinione e la folla, pubblicato da La Città del Sole) e anche Le Bon sono caratterizzati, poi, da un evidente pregiudizio nei confronti della donna. «Fra i caratteri speciali delle folle», scrive Le Bon, «ce ne sono parecchi come l’impulsività, l’irritabilità, l’incapacità di ragionare, l’assenza di giudizio e di spirito critico, l’esagerazione dei sentimenti che appartengono a forme inferiori di sviluppo: la donna, il selvaggio, il bambino».
Da che cosa dipende tutto ciò? Dall’industrializzazione, secondo il «paradigma degerazionista». Una civiltà caratterizzata da industrialismo, urbanizzazione, esplosione demografica non sarebbe una civiltà in buona salute. Il «paradigma degenerazionista», afferma Michela Nacci, «viene utilizzato per spiegare svariati fenomeni sociali, fra i quali il comportamento collettivo». Il movimento stesso della folla sarebbe «un esempio di degenerazione» e l’uomo della folla è paragonato al malato, al delinquente, al folle, all’ipnotizzato.
Lo sfondo di questa storia «è formato dai fenomeni di urbanizzazione, omologazione, presenza delle masse, dall’avanzare della democrazia sociale e della democrazia politica, dalla tendenza dell’istruzione a divenire universale, così come del voto, della produzione in serie, dal diventare ripetibile all’infinito e meccanizzata di una serie di arti e di strumenti (fotografia, cinema, mezzi di trasporto)». La psicologia collettiva è «sia un modo di manifestare la propria inquietudine di fronte a tutto questo, sia un tentativo di minare le ragioni della democrazia intesa in entrambi i sensi». Della democrazia sociale che «imbruttisce il mondo con i prodotti industriali, il cattivo gusto, la moda che uniforma» e della democrazia politica «la cui sovranità poggia su un popolo che, quando si riunisce, è dominato dall’irrazionale, dalla mimesi, dalla violenza». La democrazia «non può essere accettata» per due motivi: perché è il sistema della mediocrità e non dell’eccellenza (élite o nobiltà) e perché è il sistema delle emozioni collettive, tant’è che nelle democrazie trionfano i demagoghi». Il rapporto tra il demagogo e le emozioni è «stretto»: il comportamento della folla trasforma automaticamente la politica in un’attività da demagoghi. E il demagogo per antonomasia lo troveranno nei vari tipi di leader autoritari del Novecento. Scriverà José Ortega y Gasset nel 1930 in La ribellione delle masse (il Mulino): «Adesso di colpo molti uomini ritornano ad avere nostalgia del gregge; si abbandonano con passione a ciò che in essi c’era ancora della natura delle pecore; vogliono marciare nella vita uniti, in un cammino collettivo, lana contro lana e il capo chino; per questo in molti paesi d’Europa si vanno cercando un pastore e un mastino».
Questo, appunto, in Europa. L’America è più attenta all’evoluzione dalla «folla» all’«opinione pubblica» che, scrive Nacci, «è sparsa nello spazio, è immateriale», non si forma con il contatto dei corpi, anche se «la sua forza, il suo compattarsi su un giudizio esercita un ruolo immenso (e non sempre positivo) nella vita della nazione». È dall’opinione pubblica che può venire il «pericolo vero». Ma, ad un tempo, è solo «da un’opinione pubblica più informata che può venire la salvezza della democrazia». Non, come pensano gli europei, da un ritorno all’individuo.
All’inizio del Novecento infine la psicologia collettiva, in un breve volgere di tempo, si dissolve nel nulla. Effetto dell’ingresso sulla scena culturale della sociologia scientifica di Émile Durkheim (il cui libro più noto, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, edito da Einaudi, fu pubblicato in quello stesso 1895 del saggio di Le Bon). E della psicoanalisi di Sigmund Freud, il cui Psicologia delle masse e analisi dell’io (Bollati Boringhieri) apparve nel 1921. Scompare la psicologia collettiva, ma non la folla. La folla è, secondo Freud, «sempre intellettualmente inferiore all’uomo isolato ma, dal punto di vista dei sentimenti e degli atti che questi sentimenti provocano, essa può, secondo le circostanze, essere migliore o peggiore; tutto dipende dal modo in cui la folla è suggestionata». E fin qui … Ma poi il padre della psicoanalisi tiene ad essere più preciso su «ciò che non hanno capito gli scrittori che hanno studiato le folle solo dal punto di vista criminale»: la folla «spesso è criminale, senza dubbio, ma altrettanto di frequente essa è eroica».
Gradualmente la folla descritta da Le Bon (che nel frattempo è diventato un autore amatissimo dalla destra) scompare da questo genere di trattazione. Ma lascia un’impronta notevole negli studi del Novecento e persino degli anni iniziali del terzo millennio. Un’impronta che si intravede nei libri di Michael Hardt e Toni Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione e Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (entrambi editi da Rizzoli). E, come si è detto, nei libri che ci dovrebbero aiutare a capire il fenomeno populista.