Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  aprile 02 Martedì calendario

Il doppio bluff di Malta sui migranti

A sinistra i bastioni di Sant’Elmo, dove quattro secoli e mezzo fa i cavalieri cristiani resistettero ventotto giorni filati al bombardamento dei mori. Di fronte le grandi cisterne dell’acqua, da sempre preziosa qui sull’isola della croce a otto punte, e le mura medievali: che un po’ gli fanno paura, perché sembrano respingerlo. Ma lui lo sa, entrando in porto, che stavolta non andrà così, che un posto deve pur esserci: e sarà questo. 
Gliel’hanno detto altri profughi quando, dopo sei mesi, è stato buttato fuori da un centro per migranti di Pantano, periferia di Roma, ventesimo chilometro della Casilina: «Lascia perdere l’Italia, Abdallah, vattene a Malta, lì una fatica onesta la trovi, fratello». È un passaparola potente tra fratelli di disperazione, spesso abbastanza da tentare quest’ultimo salto nel buio: a Malta si lavora. E lo è per Abdallah Abdi quando a metà 2017, confuso nella calca, sbarca dal catamarano della Virtu Ferries, un’ora e 45 da Pozzallo per 72 euro, piccolo patrimonio messo insieme in due anni italiani di fame e notti per strada. 
Ingresso dalla finestra«Così non ce la facevo più, da voi non funzionava. Qui non mi hanno chiesto niente, il terzo giorno mi hanno tirato su con un pick up e mi hanno portato al cantiere: tre, pure quattro euro l’ora, ti pare poco? Beh, io mando perfino i soldi a casa in Somalia», si vanta nel suo inglese precario. Da noi era venuto in boat people, fino a Lampedusa, scappando dall’inferno in patria e dalle torture degli schiavisti libici. Qui ci è arrivato quasi da turista Schengen. Tecnicamente è un «movimento secondario», politicamente la prova incarnata di un grande bluff sulla pelle dei migranti. Invisibile era e invisibile è ancora, ma adesso si sente un invisibile quasi ricco, niente foto e niente video, please. Ha 27 anni sotto una faccia da quarantenne. Zainetto con gli stracci della sua vita fuggiasca, staziona davanti al centro di Hal Far (la Città dei Topi), file infinite di bianchi container roventi d’estate e umidi d’inverno nella campagna che pare Sicilia profonda a mezz’ora dai localini di Valletta, sotto la gestione dell’agenzia governativa Awas; sei migranti per container nei letti a castello, un anno per giocarsi il futuro, poi ti arrangi. I centri per migranti maltesi in passato avevano fama di lager, sono stati condannati da mezza Europa; ora sono aperti per gli ospiti (la detenzione non esiste più) ma non per la stampa, e la Awas pare avere ancora qualcosa da nascondere se ci cancella un permesso a mezz’ora dalla visita. Il ministro degli Interni Michael Farrugia ci assicura che «stanno ristrutturando tutto, entro due o tre anni». Rivendica «eccellenti rapporti con la ministra Trenta», giura che «siamo sulla stessa barca» sorridendo della metafora. Ha lanciato contro Matteo Salvini accuse di fuoco («ci bullizza!») al tempo della crisi dell’Aquarius che è ormai crisi endemica tra Italia e Malta. Ma che, vedremo, è pure crisi fasulla, buona per i rispettivi elettorati.
Laboratorio di schizofreniaPerché Abdallah non è solo. E Malta è un piccolo laboratorio di schizofrenia. Con una normativa fiscale molto accomodante ha attratto miliardi di euro su un’isola poco più grande dell’Elba e poco più popolosa di Bologna; per creare una società qui bastano due giorni: ne sono nate 70 mila. Per comprarsi un passaporto maltese «bastano» 650 mila euro... Un po’ tanti per Abdallah ma spiccioli per magnati e padrini di mezzo mondo desiderosi di una loro Tortuga nel Ventunesimo secolo: su queste storie indagava Daphne Caruana Galizia quando l’hanno fatta saltare con una bomba. Tanti soldi hanno reso popolarissimo il premier Muscat (ha stravinto le ultime elezioni nonostante le accuse di Daphne, i maltesi lo chiamano «il nostro Joseph») e catapultato Malta in controtendenza rispetto al resto d’Europa con ritmi da tigre del Mediterraneo: Pil in crescita tra il 6 e il 7 per cento l’anno, disoccupazione al 4 e, soprattutto, una bolla edilizia fatta di gru a ogni angolo. Nei cantieri gente che sgobba senza pretese come Abdallah pare mandata dal cielo più che dall’Italia. Il boom, che giornalisti avveduti come Herman Grech guardano con scetticismo («può afflosciarsi in un attimo»), si regge anche su una quota di forza lavoro appena un gradino sopra la schiavitù. «Chi ha un permesso italiano qui non può lavorare», ci contraddice Farrugia, scantonando sui numeri: «Difficile dire quanti siano». Martine Cassar, giovane commissaria governativa per i rifugiati, è la prima ad avere il coraggio di parlarci degli invisibili, «che sono sotto i nostri occhi, da maltese non posso non accorgermene, ma per la mia istituzione è molto difficile venire in contatto con loro», e del flusso dei «dublinanti» somali, «un venti per cento dall’Italia». Il clima non sembra idilliaco al ministero: il colloquio con lei è registrato da un’occhiuta impiegata. 
Le porte girevoliCosì per arrivare al punto bisogna incontrare un personaggio trasversale come il ghanese Ahmed Bugri, pastore evangelico, primo avvocato nero a Malta, trait d’union tra le ambasce governative non dichiarate e le sofferenze degli ultimi. «Trent’anni fa c’erano solo tre immigrati neri a Malta: io ero uno di loro», ridacchia: «I maltesi non ce l’hanno con la pelle ma con la religione, i problemi sono cominciati con gli immigrati islamici, e ora è islamico l’80 per cento dei nuovi arrivati». Con circa novemila rifugiati, anche a Malta spuntano i primi partitini xenofobi a tendenza neonazista. «Ma la questione maggiore – sostiene Bugri – sono i migranti che arrivano dall’Italia: tra i quattro e i seimila, non registrati qui e dunque sconosciuti, lavorano nelle costruzioni. L’economia maltese ne ha bisogno. Sono ben visibili per il nostro business ma invisibili per Stato e sistema sanitario: il 90 per cento degli africani che trovi adesso nei cantieri viene dall’Italia». 
Da qui, il braccio di ferro sui rispettivi porti chiusi sembra solo una porta girevole: il governo maltese mostra i muscoli ai propri elettori spaventati esibendo lo slogan “arrivi zero”, quello italiano fa altrettanto, poi i migranti passano comunque per l’Italia (non è vero che non ci siano sbarchi) ma l’Italia è ben felice che defluisca a Malta da turista chi non trova lavoro e a questo punto i maltesi, zitti zitti, gli spalancano braccia e cantieri. 
Gli invisibiliBugri sta assistendo un operaio del Burkina malato di cancro: «Qui da noi lavorava sulle gru, il suo permesso di soggiorno a Napoli sta scadendo. Quando si è sentito male gli hanno dato cure d’emergenza ma avrebbe bisogno di terapie che non può avere perché non esiste per la sanità maltese. Non ha nessuno e l’ospedale me l’ha affidato. Io sto facendo appello al presidente della Repubblica». I suicidi tra questi lavoratori aumentano: 11 nel 2018 sono un grande numero in rapporto alla popolazione immigrata. Le identità sono spesso fittizie, all’obitorio per cinque corpi di operai si cerca ancora un nome per la sepoltura e una famiglia lontana da avvisare. 
Così, alle rotonda di Marsa, lungo viale Aldo Moro, decine di migranti come Abdallah Abdi attendono dalle sei del mattino padroncini che li portino in furgone ai cantieri. Invisibili solo per chi non vuol vederli e tuttavia anonimi, quasi inconoscibili. «Solo conoscendo si supera la paura», dice l’arcivescovo Charles Scicluna, citando la felice esperienza del centro di Balzan, dove l’integrazione col quartiere è molto forte. Ma a Balzan ci sono famiglie, mamme e bambini, nomi e facce. Gli invisibili dei cantieri sono giovani africani dal nome incerto, al tempo stesso preziosi e pericolosi per i maltesi. Pure Bugri pensa che l’identità, da cui deriva la conoscenza, sia tutto: «Due mesi fa ho sepolto un operaio ghanese venuto da Napoli in aereo. Si faceva chiamare David Blax. Ma il suo vero nome era Kwabena Yeboha. Lo scriva bene, se lo meritava».