il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2019
Il business vegano
Genesis Butler ha dodici anni ed è una mini attivista dei vegani. Pare che già a 6 anni, guardando la mamma allattare la sorellina, avrebbe capito che il latte che beveva ogni mattina era sottratto a innocenti vitellini. Oggi è il volto della campagna globale “Million Dollar Vegan” e ha alle spalle business miliardari.
Genesis ha chiesto a Papa Francesco di portare avanti una quaresima vegana, in cambio avrebbe donato un milione di dollari a una iniziativa benefica. A versare questi soldi, però, sarebbe stata la Blue Horizon Foundation, il ramo caritatevole della Blue Horizon Corporation, un fondo con base a Zurigo e Los Angeles che investe anche in società produttrici di alimenti vegetali. L’obiettivo è “accelerare la rimozione degli animali dalla catena alimentare globale” attraverso almeno 37 marchi alimentari collegati che hanno slogan come “Il maiale giusto” oppure “Il futuro della proteina”. L’ultimo ritrovato della carne in provetta è stato presentato qualche settimana fa al Ces di Las Vegas, dal marchio Impossible Foods (uno di quelli legati alla Blue Horizon): un hamburger composto da 21 ingredienti coltivati in laboratorio. “A differenza della mucca, miglioreremo ogni singolo giorno da ora fino all’infinito” ha detto Patrick Brown, fondatore e amministratore delegato di Impossible Foods. Gli conviene. Il business del cibo in laboratorio è stimato crescerà del 40 per cento nei prossimi 5 anni, con un giro d’affari di 6 miliardi di dollari. L’unico freno, al momento, sono i costi altissimi: un chilo di carne sintetica oggi costa 700 dollari, ma nel 2013 era a quota 3.500 dollari.
Eat, invece, è una associazione che si dichiara non profit, composta da una commissione di 37 scienziati. Da qualche tempo teorizza che la tutela ambientale del pianeta passi attraverso una dieta quasi priva di carne. L’equazione è che così si riducano gli allevamenti intensivi e quindi una di quelle che negli ultimi anni è considerata principale fonte di inquinamento. Il rapporto redatto dalla commissione è stato pubblicato anche dalla rivista scientifica The Lancet e ha generato non poche critiche da parte di chi difende il pianeta della carne, ma anche dubbi nelle istituzione che avrebbero dovuto appoggiarlo. Tanto che la Farnesina ha lanciato, nei giorni scorsi, un appello all’Oms affinché non sponsorizzasse la presentazione – giovedì scorso – del rapporto a Ginevra. Appello effettivamente accolto. Frederic Leroy è un professore di Scienze e Tecnologie alimentari dell’università di Bruxelles, uno dei pochi che negli ultimi tempi si è concentrato ad analizzare il fenomeno. “Il cambiamento climatico è reale e richiede la nostra attenzione – spiega in un articolo – E, sì, il bestiame dovrebbe essere ottimizzato, ma anche essere usato come parte della soluzione per rendere l’ambiente e i sistemi alimentari sostenibili e le popolazioni più sane. Dovremmo affrontare le cause profonde, in particolare l’iperconsumismo, evitare di perdersi negli slogan, nello scientismo nutrizionale e nelle distorte visioni del mondo”. Per Leroy anche se chi sceglie di sposare “stili di vita vegetali” lo fa con ottime intenzioni, spesso dietro studi prestigiosi, teorie apparentemente fondate e sponsor di alto lignaggio, si nascondono grandi interessi. Cita Christiana Figueres, ex segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) che ha paragonato i mangiatori di carne ai fumatori, poi il professore di Harvard, Walter Willett, che ha affermato che una morte prematura su tre potrebbe essere evitata se tutti rinunciassero alla carne. E ancora il ricercatore vegan di Oxford, Marco Springmann, che ha chiesto una tassa sulla carne. “Tutti gli scienziati e le organizzazioni menzionati hanno un background comune – spiega Leroy -: appartengono alla commissione Eat-Lancet o partecipano ai loro form”. Il rapporto Eat – Lancet auspica la transizione verso un incremento mondiale del cibo considerato salubre (frutta, verdura, cereali integrali, legumi) e una drastica riduzione, o totale eliminazione, di quello ritenuto dannoso, tra cui la carne rossa, di cui viene consigliato un consumo medio giornaliero di 14 grammi, ma anche carne bianca, zuccheri e cereali raffinati.
Contro queste idee, il paradosso che siano sostenute da una fondazione con diverse contraddizioni. Eat nasce nel 2003 dall’iniziativa di Gunhild Stordalen, un’attivista animalista per la Norwegian Animal Welfare Alliance e moglie del magnate degli hotel Petter Stordalen. La coppia è tra le più ricche d’Europa e di recente è stata attaccata dalla stampa, soprattutto anglosassone, per il fatto di predicare il salvataggio del pianeta e di viaggiare con un jet privato, inquinante per definizione.
L’Eat -Forum ha, inoltre, quello che Leory definisce un “importante partenariato” con FReSH (Food Reform for Sustainability and Health), una delle principali iniziative del World Business Council for Sustainable Development (Wbcsd), un’organizzazione guidata dagli amministratori delegati di oltre 200 società internazionali. Unilever, ad esempio, offre quasi 700 prodotti vegani in Europa. “Il mercato dello stile di vita ‘vegetale’ genera ampi margini di profitto, aggiungendo valore attraverso l’ultra-elaborazione di materiali economici come gli estratti proteici, amidi e oli” spiega ancora Leroy. Che nomina anche una situazione di casa nostra. “Eat sta lavorando a stretto contatto con un altro gruppo di ricerca alimentare chiamato Barilla Center for Food and Nutrition (Bcfn)” spiega. A gennaio, la fondazione – che è un think tank indipendente e che dichiara di non avere legami commerciali o finanziari nella stesura dei sui studi – si è schierata in modo netto a favore dello studio della commissione Eat Lancet. Sul suo sito espone i benefici della “doppia piramide alimentare”, analizza tre tipi di menù e giustamente non prevede di dover cancellare la carne dalla dieta delle persone (se non nel menù vegetariano). Forniscono però i numeri dei benefici del mangiare meno carne. “Se in un anno una persona evitasse di mangiare la carne per due giorni a settimana – si legge – si avrebbe un risparmio di 310 kg di CO2 all’anno. Se addirittura tutti gli italiani non mangiassero carne per un solo giorno a settimana, si avrebbe un risparmio di 198 mila tonnellate di CO2, pari al consumo elettrico annuo di quasi 105 mila famiglie o a 1,5 miliardi di km in auto. Porterebbe gli stessi benefici di tre milioni e mezzo di auto in meno sulle strade in un anno”. Inoltre, a giugno, il Bcfn è diventato parte di un Memorandum of Understanding con il Ministero dell’Istruzione italiano, un accordo di tre anni che prevede la promozione “delle tematiche della sostenibilità nell’alimentazione”.