1 aprile 2019
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Biografia di Angelo Guglielmi
Angelo Guglielmi, nato ad Arona (Novara) il 2 aprile 1929 (90 anni). Critico letterario. Cofondatore del Gruppo 63. Dirigente. Ex direttore di Rai Tre (1987-1994). Ex presidente e amministratore delegato dell’Istituto Luce (1995-2001). Politico. Ex assessore alla Cultura del Comune di Bologna (2004-2009). «La televisione ha compensato i miei fallimenti letterari» (ad Antonio Gnoli) • Genitori pugliesi. «Mia madre doveva badare a sette figli, era una schiava, ma ironica e intelligente. Mio padre viaggiava, perciò era quasi sempre fuori. Lavorava come funzionario del ministero dei Trasporti. […] Sono nato per caso ad Arona e vissuto per un po’ a Torino. Poi a Roma. Seguivamo nostro padre nelle sue peregrinazioni. Nel 1945 ci trasferimmo a Bologna. Mio padre ebbe il compito di ricostruire la parte di rete ferroviaria bombardata. Qui ho fatto il liceo e gli studi universitari. Città ricca di tentazioni. Da cui ero escluso». «“Da bambino vivevo sempre di corsa. Ero ossessionato dalla velocità. Mi ribellavo ai limiti che sono propri del bambino. Già a sei anni giravo in modo autonomo per la città. A sette cominciai a prendere il treno da solo. […] A undici anni dimostravo ancora l’età di un bambino di sei. Ero piccolo, brutto, rachitico e mal vestito. I miei amici mi sfottevano”. Tu come reagivi? “Non potevo certo fare a botte, vista la mia gracilità. Ben presto mi lasciai attrarre dai libri. Avvertivo oscuramente che quello sarebbe stato il mio mondo. Cominciai a leggere D’Annunzio, senza capire quello che leggevo. A tredici anni presi in mano dei saggi di filosofia. Sembravo un idiota che perdeva tempo davanti a libri illeggibili per uno della mia età”. […] “Diventato adulto, […] leggevo tutto molto velocemente. Cataste di libri che compulsavo al ritmo di un mezzofondista. Senza mai un approfondimento. Che ti devo dire: fin da ragazzo sono stato intelligente ma privo di talento”. Che intendi per talento? “Riuscire negli impegni pratici della vita senza sconfitte o rinunce. E io quasi sempre, per evitare le sconfitte, me la davo a gambe, ricorrendo alla rinuncia”. Ne soffrivi? “Come un cane. Vedevo, per esempio, i miei amici serenamente fidanzati e io solo. Anche se ambivo ad avere una ragazza, avevo paura di avvicinarla. Cosa potevo offrirle? Non sapevo ballare, non ero spiritoso, per giunta complessato dalla magrezza; se mi azzardavo a fare il saccente – i libri erano il mio solo argomento spendibile –, finivo puntualmente sbertucciato”. Di quali anni stai parlando? “Gli anni dell’università. […] A un certo punto, non potendo avere una vita amorosa, mi dedicai a quella erotica”. Lo sfogo sessuale. “Cominciai ad andare con donne sposate. Perfino con le mogli dei miei amici”. Era la tua vendetta. “Non più rinunce ma rivalse”. In tutta questa tribolazione, ti laurei. “Con Carlo Calcaterra, su Leopardi e la poesia romantica. Ma i miei punti di riferimento furono Roberto Longhi, che però si trasferì a Firenze, e soprattutto Luciano Anceschi, i cui stimoli letterari favorirono il mio ingresso nel Gruppo 63”. […] “Mi ero occupato di Gadda, con una densa recensione al Pasticciaccio. Credo di essere stato il primo a farlo uscire dalle secche del rondismo. Umberto Eco mi consegnò, agli inizi del 1963, una lettera di Giovanni Getto, in cui l’illustre italianista elogiava il mio articolo. Era come se per la prima volta qualcuno di importante mi dicesse: Angelo, tu esisti come critico!”» (Gnoli). «“Da ragazzi pensavamo di dover rinnovare in toto la cultura. Il Paese si stava trasformando, ma latitavano le produzioni della mente: ‘Cambia tutto – ci dicevamo –. Perché non dovrebbe capovolgersi anche la letteratura?’. Ci pareva essenziale. Eravamo stupiti che non accadesse”. Il Gruppo 63 nacque anche per questo? “Fummo accusati di arrivismo: ‘Ecco i nuovi che smaniano per prendere il potere’. Era falso. Il Gruppo 63 nacque quasi senza che ce ne accorgessimo. Incontrai un amico a Roma, in piazza Cavour: ‘A ottobre saremo a Palermo per parlare di letteratura’. Andai. Esserci mi sembrò semplicemente giusto. Volevamo un mondo diverso da prima. e quindi anche i nostri gesti dovevano marcare uno scarto”» (Malcom Pagani). «Quando nasce il Gruppo 63, i motivi e i personaggi che lo compongono e vi partecipano avevano già manifestato alcuni punti capitali delle loro attività. Era già uscito per esempio Fratelli d’Italia di Arbasino, l’Opera aperta di Eco, che è del ’62, e Luciano Berio era già un noto compositore. I nuovissimi, e cioè Sanguineti, Porta, Balestrini, Pagliarani, Giuliani, nel ’61 sono ciò che meglio aiuta a capire cos’è stato il Gruppo 63. Un rifiuto di un senso comune, alla ricerca di un senso più alto. Il rifiuto della parola che sermoneggia e ammonisce per una parola che rende più vivi. La poesia non è quel che dice, ma è quel che fa. Appoggiavamo un’intuizione importante di Leopardi, che scriveva nello Zibaldone che la lettura di una bella poesia produce la stessa reazione che Storm diceva procurargli un sorriso. E Leopardi dice che una bella poesia “aggiunge un filo alla nostra brevissima vita, ci rinfresca e accresce la nostra vitalità”. Quando nasce, il Gruppo 63 prende atto che esiste nel Paese un grande movimento di rinnovamento, come in Germania il Gruppo 47» (ad Alain Elkann). «Eravamo diversi, ma avevamo le stesse impazienze: non ci piaceva il neorealismo piatto e predicatorio, di origine ottocentesco-naturalista; non ci piaceva il crepuscolarismo in poesia, dolente di umili lacrime; non ci piaceva il Paese in cui eravamo diventati adulti. […] E tutto questo non perché soffrissimo di qualche esclusione, essendo già tutti ben sistemati nell’università, nelle case editrici, nei giornali, alla Rai. Dunque niente rivendicazioni personali. Né obbedienze fideistiche: votavamo tutti per i partiti di sinistra (il Pci in testa), ma avevamo in orrore le loro idee sull’arte, cioè la pretesa che l’arte dovesse servire alla politica o, in forma più composta, che l’arte servisse a cambiare il mondo. Il romanzo che più deridevamo era Metello di Pratolini». «“Arrivai prima di tanti altri a intuire che la letteratura doveva modificare i propri codici di accesso alla realtà. Ero stato veloce e tempestivo, qualità che nel gruppo vennero apprezzate. Ma non ero il classico studioso. All’epoca già lavoravo in Rai. Non somigliavo in niente a figure come Sanguineti, Giuliani, Manganelli, Eco. Gente dotata di una forte tempra intellettuale”. Vuoi dire che non ti sentivi alla loro altezza? “Ero insicuro e superficiale. Ho vissuto come una colpa la scarsa profondità del ragionamento e la mancanza di finezza filologica con cui loro argomentavano le loro tesi. Poi, come reazione, ho cominciato ad annoiarmi”. […] Avevi pur sempre la Rai. Com’eri finito a lavorarci? “Sia io che due miei fratelli, Guido e Giuseppe, eravamo alla ricerca del mitico posto fisso. Sapemmo di un concorso come programmisti e ci presentammo. Passammo lo scritto, e poi demmo l’orale. Seppi, qualche settimana dopo, che un Guglielmi era nell’elenco dei quaranta che ce l’avevano fatta. Pensai subito che a vincerlo fosse stato mio fratello Giuseppe, il più brillante. E invece fui io il prescelto. Fu così che tornai a Roma”. Quando ti hanno nominato direttore delle Terza Rete? “Nel 1987. Entrai con la ferma convinzione di sbaraccare tutto”» (Gnoli). «Il mio nome lo suggerì Veltroni. Anche se scrive i romanzi che scrive, Walter è un uomo curioso e intelligente». «“Cominciai domandandomi cosa mancasse alla tv italiana”. E cosa si rispose? “Che mancava un’informazione seria sulle condizioni del Paese. Fino a metà anni ’80 la tv era stata un nastro trasportatore. Portava nelle case romanzi, teatro, musica e film senza mai raccontare il contesto sociale né sfiorare il contatto con le persone. ‘Farò il contrario’, giurai. E fui criticatissimo, anche da quelli che stimavo”» (Pagani). «Avevi imposto la pratica dell’alto-basso. “Fu fondamentale. Era il periodo delle nuove televisioni, dove dilagava il trash. Non potevi contrastarlo con dosi massicce di moralismo. Occorrevano intelligenza, ironia, curiosità e soprattutto una complicità nuova con lo spettatore. Oltretutto, personaggi fondamentali per la nostra televisione come Baudo e Carrà avevano accettato le offerte miliardarie di Fininvest”. C’era il rischio di perdere il primato degli ascolti? “I dirigenti non ci dormivano la notte. Noi della Terza Rete inventammo programmi che sarebbero durati nel tempo: Profondo Nord, Milano-Italia, Samarcanda, Un giorno in pretura, Chi l’ha visto?, Mi manda Lubrano, e poi Il portalettere di Chiambretti, La tv delle ragazze. Naturalmente Blob, una striscia di straordinaria ironia fatta di immagini e parole. Fu un modo nuovo di realizzare spettacolo e politica”» (Gnoli). «Sono stato aiutato dalla mia esperienza di intellettuale impegnato nel rinnovamento della letteratura. Ricordavo che aveva avuto buona fortuna la serie Feltrinelli dei “Franchi narratori”, uomini che avevano avuto esperienze drammatiche e riversavano la loro vita sulle pagine scritte. Pensai anche a una battuta di Pasolini, grande imbonitore, che diceva: “Sono stanco di raccontare la realtà con le parole. Voglio raccontare la realtà con la realtà”. Mettemmo la realtà sul palcoscenico così com’era». «Decisi di raccontare il Paese con tutti i linguaggi, da quello giornalistico a quello satirico, da quello sociale a quello politico. […] Lo share della rete passò dal 2% al 12%». «“Il tempo correva, e noi riuscimmo ad anticiparlo. Quando facemmo Profondo Nord, il problema si diceva fosse il Sud. Gad Lerner mi aiutò e mi disse: no, è il Nord. Due anni dopo scoppiavano Tangentopoli e la Lega. Noi fummo i primi a far salire sul palco della tv la Lega, e fu uno scontro di linguaggi formidabile”. […] Dopo Rai Tre venne l’Istituto Luce, e qui il suo approccio al reale mutò ancora una volta: film come I cento passi, La finestra di fronte, Pane e tulipani vennero arruolati in un’“etica dell’intimo” che le assomiglia ben poco. “Può darsi. Però anche quei film, a loro modo, riportarono in scena l’Italia. Erano pellicole che epicizzavano fatti interiori, collegandoli a scenari più generali. C’era stata la commedia all’italiana, grande finché si vuole, ma pur sempre commedia. Poi, il vuoto. Tanto che un produttore, appena sentiva parlare d’Italia, voltava le spalle. Questi film acchiapparono subito il pubblico. Come la tv, anche il cinema non può essere di nicchia, dev’essere popolare. Perfino Godard, prima di impazzire col ’68, faceva film popolari. La cosa buffa […] è che io mi portavo dietro la fama di non amare il cinema. Invece era stato mio il primo film prodotto dalla tv, Francesco della Cavani; mia la prima miniserie televisiva, L’anno Mille, in sei puntate, Indovina regista e Carmelo Bene attore; mio il primo sceneggiato familiare, la famiglia Polidori, con Age e Scarpelli. Anche in Rai Tre produssi dei film, Mignon è partita e Nuovo Cinema Paradiso, perché come manager ritenevo giusto destinare al cinema parte del mio budget. Però non li pensavo per la mia tv, e li regalai a Rai Uno”» (Enrico Regazzoni). Guglielmi intraprese la sua quarta vita, quella politica, dapprima candidandosi con il centrosinistra alla carica di sindaco di Pomezia nel 2002, fallendo però l’obiettivo, e poi accettando di guidare l’assessorato alla Cultura di Bologna ai tempi della giunta Cofferati, dal 2004 al 2009. In seguito ha ripreso a occuparsi principalmente di critica letteraria, scrivendo articoli e recensioni su varie pubblicazioni (l’Espresso, l’Unità, La Stampa, Tuttolibri, il Fatto Quotidiano, Alfabeta2). Tra gli ultimi libri pubblicati, sono del 2010 Carte bolognesi. Luglio 2004-giugno 2009 (Aragno), sulla sua esperienza politica, Il romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana (Bompiani), testo di critica letteraria, e Senza rete. Il mito di Rai Tre 1987-1994 (Bompiani), scritto a quattro mani con l’autore e produttore televisivo Stefano Balassone sulla loro comune esperienza televisiva • Un nuovo volume prossimamente in uscita presso La Nave di Teseo, Sfido a riconoscermi, «un tumultuoso autodafé, una confessione tormentata ma senza rogo finale. […] “Provo a raccontarmi in una sorta di grado zero. Per capire quanto la mia infanzia abbia inciso sulla vita adulta”. C’era bisogno di scrivere un libro? “Sarei potuto anche andare da un analista, ma sono vecchio. Tu mi vedi sul lettino a piagnucolare davanti a un estraneo?”» (Gnoli) • Sposato, due figli • Un tempo, «mi fermavano per strada e mi confondevano sempre con Jannacci: “Il suo ultimo disco è stupendo”. In principio negavo, ma nel tempo, per comodità, mi abituai a mentire. Posavo per le foto, facevo gli autografi, mi spendevo nelle dediche: “In scarp de tennis, tuo Enzo”» • «“I sette anni di Rai 3 arrivarono in un contesto incredibile e irripetibile: tra il crollo del Muro di Berlino e quello dei partiti. Il mondo si stava rovesciando. Noi accompagnammo lo sgretolamento e in qualche modo lo vaticinammo. Qualcuno, nel partito e non solo, ci rimproverò la sconfitta del ’94. Repubblica fu durissima: ‘Rai3 è tra i principali motivi della disfatta’”. Lei ci ha mai creduto? “Mai. Le accuse erano ridicole. La verità è che sono stati dei coglioni. Avevano già vinto. Davanti a loro c’era un’autostrada. Le scelte di Occhetto ebbero un ruolo. Dopo la caduta del comunismo bisognava cambiare, ma il rinnovamento occhettiano disarticolò il partito e lo indebolì. Creò smarrimento e disaffezione. Berlusconi ebbe gioco facile. Pensò: ‘Prendiamoci tutti i partiti decotti e combattiamo contro l’unico che ha ancora qualcosa di vivo’. E vinse. Come in Gogol, c’erano in giro solo anime morte. Berlusconi le ingaggiò. Le comprò. Le pagò tutte”» (Pagani). «L’ideale è fare una tv non culturale, ma colta» (a Nello Ajello) • «L’uomo in questione è di una antipatia rara, quindi fantastico. […] Un tizio che ha vissuto due crolli di Wall Street e nel mezzo ci ha messo almeno due vite: quella del letterato d’avanguardia, elitario anzichenò; e quella dell’inventore di una televisione vera, popolare, immersa nella realtà. Finge per snobismo di appassionarsi solo al linguaggio (dunque tifa per il Grande fratello); desidera passare per cinico (altrimenti non avrebbe piazzato la Raffai a fare l’inquietante Chi l’ha visto?); adorerebbe che lo ricordassimo come figlio di puttana (odia i buoni sentimenti, e semmai gli ha preferito Giuliano Ferrara). Ma la verità che non ammetterà mai è che gli stanno a cuore robe démodé come la giustizia sociale e la decenza legale. Per questo rimane un vecchiaccio ribelle» (Gad Lerner). «Guglielmi è stato un grande direttore di rete che capiva poco di tv. Infatti ha creato la tv che non c’era. Una tv di verità. Sporca, viva, senza fronzoli. Non ascoltava mai, ma aveva grande fiuto» (Piero Chiambretti) • «Ritengo che la letteratura affermi sempre una sua presenza nella realtà, anche quando apparentemente ne rifugge o le volta le spalle. L’importante è capire cos’è la realtà. Scrittori come Kafka o Beckett non credo che non esprimessero un impegno, anzi, è certo che il loro rapporto con la realtà è più stretto e incisivo e autentico che quello dei cosiddetti realisti loro contemporanei. Tutti i grandi scrittori sono impegnati». «La realtà non è un fatto, ma un concetto. Negli anni Cinquanta gli scrittori come Pratolini raccontavano la realtà sociale e politica, negli anni Sessanta Arbasino e Sanguineti, sollecitati dal grande Gadda, guardavano alla realtà come invenzione linguistica, negli anni Ottanta, con Tondelli per esempio, si annuncia il ritorno alla realtà dell’esperienza». «Da quanto tempo non abbiamo un Berio, un Bene o un Gadda? C’è una perdita di energia. Una cultura che, incapace di qualsiasi ribellione, riesce soltanto a riesumare un lontano ieri. Il postmoderno è questo: rifare il passato. La scorciatoia semplice: “Il presente è fuggito? Riproponiamo l’antico”. Idee nuove, zero» • «Voi del "Gruppo 63" - oltre a lei, Eco, Giuliani, Arbasino, Sanguineti e altri - ve la prendevate con il romanzo tout court, ne dichiaravate un po’ troppo affrettatamente la fine. “Quando ne sostenemmo la scomparsa, intendevamo che era morto il romanzo ottocentesco. E volevamo essere conseguenti, auspicando un romanzo senza trama, che non raccontasse, scritto di parole che non dicono ma fanno”. Diciamo la verità: pretendevate romanzi con pochissimi lettori, il contrario di quello a cui ogni scrittore normale aspira. “Non nego che sia così. Legavamo la qualità del romanzo alla sua illeggibilità. Pensavamo che essere leggibili voleva dire cedere al facile, al consolatorio”. […] Fino a dove può spingersi il ripensamento o l’autocritica di un critico? “Non ci sono limiti. L’errore, la sottovalutazione come pure la sopravvalutazione, fanno parte dell’azione di un critico. Ancora oggi sono convinto che Moravia fosse un grande scrittore ma senza una lingua adeguata”. E Pasolini? “Con lui c’era una forte inimicizia. A mente fredda, posso dire che i suoi romanzi erano scadenti. Salverei solo Petrolio per il suo carattere inconcluso. Ma sono certo che se lo avesse portato a termine sarebbe stato brutto come gli altri. Non saprei cos’altro salvare di Pasolini. Anche Le ceneri di Gramsci soffrono di larghi margini di retorica. È stato però un grande comunicatore, un moralista estraneo alla tradizione laica dei moralisti francesi, ma appartenente alla schiera, diffusa in Italia, dei predicatori alla Savonarola, i cupi ammonitori”. […] Ha ancora senso la difesa del critico che analizza, squarta, ricuce e poi stila il referto? “Finché esiste gente che scrive romanzi esisteranno critici pronti a giudicarli. Siamo figure minori, servili, legate alla sorte del romanzo”. Qual è l’ultimo grande romanzo che ha letto? “Se parliamo di grandi romanzi e non dei brodini con i quali di regola ci nutriamo, direi Fratelli d’Italia. Con quell’opera Arbasino inventa una lingua stracciata, flessibile e che si conforma al disordine, al non senso che ha invaso i comportamenti e le ideologie. Timbra così la modernità”. […] Lei che rapporto ha con il basso della letteratura? “Non ho pregiudizi. Dipende dall’offerta. Per esempio, Camilleri o Carofiglio sono realmente interessanti, anche se coprono una domanda molto allargata di lettura. Di altri non saprei. Ci vuole un minimo di ragione per leggere un libro. Qualcosa, se pur piccola, deve spostare. Altrimenti non ne vale la pena”» (Gnoli) • «Non vi sono quasi mai nomi di scrittori interessanti, a proposito dei quali valga la pena leggere ciò che Guglielmi, o chiunque altro, ne pensa. Anzi, a questo livello di setaccio e riepilogo di una lunga, battagliera vicenda di critico, sorge spontaneo l’ultimo dubbio, che a furia di indicare la retta via si siano dimenticati i prerequisiti, ovvero l’elementare senso comune, ciò che (nello spazio estetico) chiamiamo gusto. A Guglielmi, ahimè, manca il gusto. È la ragione per cui, alla fine, come accade a tanti scrittori d’avanguardia, risulta attraente, o coinvolgente, l’uomo; l’uomo più che lo scrittore» (Franco Cordelli). «Nel ’91 ho ricevuto una stroncatura pazzesca da Angelo Guglielmi sulla "Stampa", che mi rimproverava di aver ambientato folcloristicamente Non voglio farti male in una piazza di Marrakech. Peccato che quel racconto fosse ambientato a Tel Aviv» (Ippolita Avalli). «Angelo Guglielmi ha scritto: “Troppe citazioni: come se l’autore volesse far credere che ha studiato!”. E non ha capito che le citazioni erano false. Era un gioco. Gli ho mandato una lettera: “Guardi che le citazioni me le sono inventate”» (Antonio Pennacchi) • «Ho sempre detto di essere uno schizofrenico e ho avuto bisogno di esercitare due mestieri e possibilmente anche tre nello stesso tempo. Non è sufficiente un solo mestiere per dare senso alla propria vita. Sono finiti i tempi in cui una sola occupazione riempiva la persona. L’uomo intero, l’uomo unico è una figura dei tempi antichi. La modernità è frammentazione, divisione non solo del lavoro, ma anche della personalità». «“Né intellettualmente, né psicologicamente io so stare su una sola sedia, svolgere una sola attività. Ne svolgo, dunque, più d’una: e le tengo ben separate fra loro. Quando diventai direttore di Rai Tre, tutti si aspettavano che avrei impostato il mio lavoro partendo dalla mia esperienza di letterato. Invece feci l’opposto, perché letteratura, cinema e tv sono tre linguaggi separati che non è bene contaminare fra loro. Cultura, in tv, è fare bene ciò che ha una pretta nascita televisiva. Così tenni lontano dalla mia rete la letteratura, la musica, le arti figurative e anche il cinema. Tanto che, quando passai dalla tv al cinema, mi accompagnò la nomea che fossi nemico del cinema”. Questi tre linguaggi hanno tuttavia un obiettivo comune. “Certo, ed è quello di riflettere la realtà. Però la realtà non puoi più raccontarla direttamente, come faceva il neorealismo, ma devi scegliere strade più tortuose, che la aggirino e non la prendano di petto. Devi approntare uno strumento formale per sorprenderla”» (Regazzoni). «Quando qualcuno, per lei, sceglie un aggettivo come "cinico", lei come reagisce? "Io non credo di esserlo. Ho solo quel tanto di spregiudicatezza con la quale è necessario accompagnare qualsiasi avventura intellettuale"» (Anna Maria Mori). «Come affronti i tuoi novant’anni? “Possono essere terribili o consolatori. I miei arrivano in condizioni di salute decente. Ho una mamma che si è spenta a 102 anni. Perciò non chiedermi come sarà il mio futuro”. Del passato cosa rimpiangi? “Di non essere diventato un grande critico. Uno come Contini o Debenedetti. Per intenderci”. Sarebbe stato così importante? “È una questione privata. Un dialogo tra me e le mie mancanze. Dove gli altri vedrebbero un desiderio frustrato io scorgo un pezzo di vita irrealizzata. Mi chiedo se avrei mai avuto la stoffa per diventarlo veramente”. Ti sei dato una risposta? “Non ci sono risposte. Almeno io non sono in grado di trovarne. Ciò che si annida nell’anima è un ‘come vorrei essere stato’. E non so se sia una falsa pretesa, un falso ricordo, una falsa immagine di me. So che la consapevolezza porta qualcosa di nuovo. Ma complica la vita”» (Gnoli).