La Stampa, 1 aprile 2019
Miriam Leone interpreta Oriana Fallaci. Intervista
In A cup of coffee with Marilyn, cortometraggio diretto da Alessandra Gonnella, interpreterà Oriana Fallaci: «Ci concentriamo sul prologo de I sette peccati di Hollywood. L’Oriana che raccontiamo è quella che ha appena iniziato a lavorare come giornalista di costume e inviata dell’Europeo».
In televisione è stata Valeria Ferro in Non uccidere e Veronica Castello nella trilogia di 1992, che tornerà in autunno su Sky Atlantic con l’ultimo capitolo, 1994. Mentre parla nomina libri, scrittori e storie. Spiega come sarà il futuro citando il selvaggio de Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Miriam Leone è diplomatica, ma sincera. Contenuta ma, a tratti, esuberante.
Quando le viene chiesto della Fallaci, per esempio, di quanto venga usata e riusata da una certa politica per fare propaganda, non si scompone e dice: «Secondo me di Oriana si parla troppo poco». Racconta di una giornata trascorsa con Edoardo Perazzi, nipote della giornalista, e della fortuna che ha avuto nell’aprire e toccare i suoi quaderni. La memoria, ammette, «diventa spesso anche di chi se ne impossessa con la forza. Ma il nostro vuole essere un omaggio».
La Fallaci resta un personaggio controverso.
«E lo è. I personaggi controversi sono quelli che mi affascinano di più. Anche con la paura che ne può derivare, perché devi maneggiarli con cura».
Sia in «Non uccidere» che nella trilogia di «1992» interpreta donne simili.
«Sono eroine e antieroine insieme, perché hanno la complessità della vita. Non sono donne rassicuranti: mamme e mogli esemplari».
«Non uccidere» ha segnato un precedente per la Rai.
«È stata la prima vera serie tv di un canale generalista. Aveva una volontà autoriale e la protagonista era una donna inedita, fuori dagli schemi. Non c’è quel solito trionfalismo».
Poteva essere spinta e pubblicizzata meglio.
«Essere i primi a fare qualcosa significa spesso essere visti come alieni. Le cose non cambiano all’improvviso. C’è bisogno di un passaggio e in questo caso quel passaggio è stato Non uccidere».
Un passaggio passato, forse, in sordina.
«Quello che manca oggi è un vero indice di gradimento. È come il formaggio, se vuole».
Cioè?
«Se compra un formaggio fatto da un piccolo produttore sa che, rispetto a quello del supermercato, sarà più buono, ma non lo troverà facilmente. Per questo serve un indice di gradimento: bisogna indicare quanto una cosa è apprezzata. Chi ha visto Non uccidere l’ha amata; non l’ha lasciata in sottofondo».
Il problema «supermercato» c’è anche al cinema: si produce troppo e si incassa poco.
«Al cinema, però, ci devi andare. E se un progetto va bene o no, dipende da tante cose. Ci sono film bellissimi che meriterebbero d’essere visti, e che purtroppo non ricevono la giusta attenzione».
Quanto contano i no?
«Tantissimo. Lo sto capendo quest’anno. I no che ho detto sono stati guidati dall’intelligenza della pancia e del cuore. Se non scatta una chimica con il personaggio e con il progetto, e hai la fortuna di poter scegliere, è meglio rifiutare».
Qual è la cosa che conta di più per lei?
«Raccontare storie fa parte del mio Dna. Ho imparato a leggere da sola quando avevo 4 anni».
Il primo libro che ha letto?
«Cappuccetto rosso. Avevo un’audiocassetta e la ascoltavo, e quando mi sono resa conto che le parole che sentivo erano le parole che erano scritte nel libro, mi sono ostinata a leggerle da sola. Poi sono andata dai miei genitori e gliel’ho detto. È stato in quel momento, credo, che hanno capito che gli avrei dato qualche problema».
Forse speravano che lei facesse un altro lavoro.
«Sicuramente avranno sperato in un futuro più accademico. Ma in qualche modo, per me, è stato così. Buona parte del lavoro che faccio parte dalla scrittura. E io amo essere pagata per studiare».
Dal 5 al 10 aprile sarà in giuria a Canneseries, festival dedicato alle serie tv dove, l’anno scorso, è stato premiato un italiano: Francesco Montanari per «Il cacciatore».
«Sono stata felice quando mi hanno chiamata, perché è stato un attestato di stima. In giuria c’è uno dei miei miti, Stephen Fry. E c’è anche Emma Mackey di Sex Education, che mi è piaciuta tanto. È una bella occasione per vedere questo mestiere senza barriere».
Si sente più intelligente o bella?
«Io non so appormi delle etichette. Non posso dirmelo da sola, non è elegante. Perché l’eleganza, sa, è la prima cosa».