Corriere della Sera, 1 aprile 2019
Tetto agli stipendi, il rebus dei dirigenti
Non sono riuscita a trovare, in nessuna parte del mondo, un amministratore delegato di una società in regime di competizione che percepisca lo stesso stipendio di un dirigente suo sottoposto. Venendo meno il principio dell’equità e della motivazione, manderebbe l’azienda fuori mercato. In Italia questo avviene.
La storia inizia con una buona legge, quella che ha mosso i primi passi nel 2011, mettendo un tetto ai dirigenti della Pubblica amministrazione. Il decreto, che alla fine coinvolge ministeri, enti pubblici e autorità indipendenti, entra in vigore il primo maggio 2014: il più alto in carica non deve superare i 240.000 euro lordi l’anno. Cottarelli, però, sa che il grosso del problema è più nascosto e propone la necessità di adeguare verso il basso gli stipendi delle fasce sotto le figure apicali, ma la ragioneria dello Stato ha stimato che avrebbe coinvolto circa 50.000 dirigenti (46.051 per la precisione). Renzi ha preferito fermarsi lì e rimandare ad un secondo decreto l’eliminazione delle sacche di privilegi.
Intanto la retribuzione media delle nostre figure apicali è scesa da 339.000 a 212.000 euro lordi; nonostante la sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra della media dei Paesi sviluppati che aderiscono all’Ocse, fissata, secondo la rilevazione che va dal 2011 al 2015, in 132.315 euro lordi. A conti fatti, quanto si è risparmiato? La Ragioneria un dato certo non ce l’ha; si parla di una «stima» complessiva di 30 milioni di euro l’anno.
La stessa norma è stata estesa alle società partecipate, ad esclusione di quelle quotate (come Eni, Enel, Enav, Leonardo, Poste Italiane) e quelle che emettono bond (Ferrovie, Rai) perché sono in regime di competizione e i manager si reclutano a prezzi di mercato. È un po’ ardito equiparare un direttore generale della Pubblica amministrazione all’amministratore delegato di un’azienda commerciale, ma tant’è. Nella rideterminazione dei tetti, la parte fissa è stata portata a 192.000 euro, a cui va aggiunta una quota variabile legata alla complessità organizzativa, gestionale e di risultato.
I risparmi non sono banali; per esempio, l’emolumento dell’ad di Consap è passato da 440.000 a 240.000, mentre quello di Consip da 305.000 a 208.000, Sogei da 435.000 a 208.502, Sogin da 472 a 211.000. Anche qui però la legge è monca. Il Mef aveva scritto un decreto che stabiliva cinque fasce sottostanti e determinava per ciascuna il limite dei compensi massimi, secondo il grado di responsabilità; inoltre forniva dei criteri all’amministratore delegato, per uniformarsi in base alle necessità dell’azienda. Però poi il decreto non lo ha mai fatto. Quindi, se oggi vai a cercare sui siti delle società la retribuzione dei sottoposti, nel riquadro «società trasparente» trovi per lo più il richiamo alla privacy. Dal canto suo, il Mef una banca dati con gli stipendi dei dirigenti delle sue partecipate non ce l’ha.
Nel 2016 arriva finalmente in aula il decreto che regola la Pubblica amministrazione, dove la qualifica di dirigente, una volta acquisita, non si perde, indipendentemente dall’incarico, e anche se l’incarico non lo si ha più. E infatti, alla presidenza del Consiglio per esempio, ci sono più dirigenti di posti disponibili. Nella Pa si può solo salire, e quando arrivi in alto ti puoi anche sedere, perché, con la legislazione vigente, nessuno ti può più togliere da li.
Cosa stabilisce il decreto? Una commissione indipendente sceglie il più idoneo ad occupare la posizione di vertice nei ministeri ed enti pubblici, e autorizza il direttore generale a spostare un dirigente ad incarico di minor responsabilità e stipendio. Il decreto Madia, approvato dal Parlamento il 24 ottobre, viene abrogato dalla Corte costituzionale con una tempistica sorprendente: 24 ore. Motivo: la Regione Veneto aveva fatto ricorso, subito accolto, perché la materia coinvolge anche le regioni e quindi bisognava prima discuterne con loro. Poiché la delega al governo scadeva il 26 ottobre, quel decreto non è più stato ripresentato.
Poi c’è l’ibrido Rai. Nel 2016, a seguito del canone infilato nella bolletta elettrica, l’Istat la inserisce nella lista delle società pubbliche. Sono fini statistici, ma Renzi prende la palla al balzo e applica i criteri della Pa, anche se il contratto è privatistico. La Rai dovrebbe stare fuori da quel perimetro, perché ha emesso bond e concorre con le tv private, quindi il manager andrebbe reclutato a prezzi di mercato. Con il tetto a 240.000 euro, o ha una motivazione di ferro, o ha poco mercato. A differenza delle altre società pubbliche, però, la Rai è trasparente e pubblica tutto. Leggiamo: l’amministratore delegato Fabrizio Salini, a cui è affidata la gestione di 12.300 dipendenti e un budget di 2,6 miliardi di euro, percepisce lo stesso stipendio di 43 suoi sottoposti. Si va dal direttore della sede regionale d’Abruzzo, al direttore del Centro Produzione di Torino, dal sovrintendente dell’orchestra sinfonica, al responsabile del bilancio sociale, da quello di Rai Academy, a quello della Gestione Grandi Eventi, da quello della commissione che mappa il personale giornalistico, al vicedirettore di Rai Parlamento; oltre agli ex direttori in attesa di incarico, incluso l’ex amministratore delegato Mario Orfeo.
Altri 12 dirigenti si aggirano sui 230.000 euro: il direttore di Rai canone, quello della sede Liguria, il direttore per la qualità e pianificazione, gli approfondimenti culturali, l’intrattenimento, il vicedirettore direzione creativa. Tutti incarichi di infinita minor responsabilità rispetto a quella del capo azienda, il che determina una situazione a dir poco «anomala».
Cosa potrebbe fare l’amministratore delegato? Definire un tetto per i suoi primi riporti, a seconda del peso dell’incarico (il direttore del personale o del Tg1 non può valere quanto quello delle sedi regionali o dei servizi parlamentari). Proporre a chi ha già maturato posizioni con retribuzioni superiori, la risoluzione del rapporto e la riassunzione, sempre come dirigenti a tempo indeterminato e mantenendo i benefici connessi all’anzianità, ma con retribuzioni adeguate al nuovo incarico.
Chi accetta resta e chi non accetta va a casa, con preavviso e risarcimento per mancanza di giusta causa. Certo, ci vuole il coraggio di un manager con consumata esperienza di gestioni complesse (che difficilmente trovi con il «tetto» previsto dalle legge), perché il rischio di innescare un contenzioso senza fine, e di perderlo, è alto. Dovrebbe pensarci il Mef a togliere le castagne dal fuoco, ma come abbiamo visto non si muove foglia.
Riassumendo: la politica ha stabilito giustamente un tetto per i 1.809 apicali della Pubblica amministrazione, ma non ha fatto una norma che riequilibra le posizioni della numerosa schiera di dirigenti che stanno sotto. Idem per le società partecipate, con l’aggravante di aver messo sullo stesso piano gli amministratori delegati di società con migliaia di dipendenti, con quelli delle partecipate di provincia. Per la norma generale, i risultati e il principio di equità contano poco: basta stare dentro ai 240.000 euro, e chi c’è c’è.