Corriere della Sera, 1 aprile 2019
Il marchio del Chapo
Hanno cercato, invano, il tesoro di El Chapo. Quattordici miliardi di dollari, forse molti di più. Parlavano di usarli, se scovati, per costruire il muro al confine con il Messico. Alla fine hanno potuto solo condannare il boss all’ergastolo, da scontare in futuro – salvo sorprese – nella prigione di massima sicurezza, Supermax, in Colorado. La tomba per i vivi. Nell’attesa, Joaquín Guzmán, ha sbrigato alcune faccende personali.
Pochi giorni fa l’ex capo del cartello di Sinaloa ha firmato i documenti che autorizzano la moglie a creare una società nel Delaware, una compagnia che si lancerà nel campo dei gadget e della moda con logo unico: El Chapo Guzmán. Il progetto di Emma Coronel, una volta miss e oggi mamma di due gemelline di 7 anni avute con il bandito, è di vendere magliette, cappellini, oggetti di ogni colore e foggia, abiti, tutti marchiati da un brand famoso. Anzi, famigerato.
I particolari – raccontati da un servizio della Cnn — non lasciano dubbi al grande impegno della reginetta di Sinaloa. Il gangster ha concesso alla moglie tutti i diritti ed ha precisato che non beccherà neppure un centesimo dall’operazione commerciale. Non è un gesto di generosità, ma un modo per evitare che i federali si mettano di traverso usando il codice.
Esiste negli Usa una legge che vieta a qualsiasi criminale di trarre guadagni dallo sfruttamento pubblicitario delle sue imprese. Regola introdotta dopo che truci assassini hanno provato a far soldi vendendo memorie o altro una volta finiti in galera. Qualche esperto, però, ha lasciato trasparire dei dubbi se la misura sia applicabile o meno anche nei confronti di Emma, è possibile che lo Stato possa bloccare l’iniziativa. Non l’unica attorno ad un personaggio passato dalla vita nei campi a ruolo di pericolo numero uno, precedenti dove sono state sempre le donne a sfruttare la popolarità del trafficante. Del resto, nella sua lunga latitanza ci sono state sempre molte presenze femminili. Le consorti, le amanti, una deputata regionale, la fedele cuoca e tante altre, in qualche caso spiate con l’aiuto di un software nei cellulari.
Kate de Castillo, l’attrice che ha accompagnato Sean Penn nella rocambolesca intervista a Guzmán, aveva una grande «simpatia» per il padrino, un’attrazione ricambiata che poteva andare oltre il rapporto personale. Kate, dicevano, era in cerca di sponsor per la marca della sua tequila poi lanciata sul mercato. L’attrice ha smentito qualsiasi collaborazione ed ha sempre respinto illazioni sul suo ruolo, indiretto, nella cattura del boss. Tra le ipotesi su come i messicani, aiutati dalla Dea, fossero riusciti a scoprire il ricercato c’era quella delle tracce lasciate nei contatti per l’intervista.
Un incontro dove il leader di Sinaloa appariva con una camicia dai colori vivaci. Bene, a Los Angeles, ci fu chi pensò di copiarla per poi metterla in vendita su Internet. Ancora più spregiudicata e decisa, Alejandra, una delle sette figlie del bandito. È stata lei a creare jeans, T-shirt e altri oggetti con un etichetta dedicata al papà: «El Chapo 701», con il numero a indicare il posto ricoperto dal genitore in un elenco di Forbes nel 2009. Se qualcuno deve sfruttare il nome – avrà pensato – meglio che sia una cosa pensata nella grande famiglia, dove ognuno si è ritagliato un ruolo.
Dopo l’estradizione negli Usa del capostipite, nel clan sono sorti contrasti su chi dovesse ereditarne le redini. Figli, fratelli, parenti si sono fatti la guerra, i rivali di Jalisco-Nueva Generación hanno provato a impadronirsi di fette di territorio, la vecchia guardia si è arroccata attorno a Ismael Mayo Zambada, per molti il vero comandante.
La condanna di Guzmán ha trasmesso l’immagine di debolezza di un uomo una volta potente. I suoi hanno reagito con la forza bruta e la propaganda, diffondendo un video per dire «ci siamo ancora», il team di avvocati ha impugnato le carte per denunciare vizi di forma nel procedimento. Emma Coronel, da buona moglie, si è preoccupata dei soldi.