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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Intervista a Fabio Volo

Intrepido. “Sono in Australia, qui è pieno di animali mortali, pericolosissimi, sono ovunque”. Anche ora? “Ho davanti una rana che mi fissa, dopo le mando la foto”. Profilo basso. “Come presentatore alla radio sono un numero uno assoluto, trovo sempre la battuta. Mi basta un attimo”. E come scrittore? “Ecco, tanto lo so che arriva l’attacco, voi della stampa mi trattate perennemente male”. Autoironico con preoccupazione. “Per favore, ogni tanto può specificare che scherzo e provoco? Altrimenti mi vengono a prendere con i forconi”. Fabio Volo è un seduttore. Lo sa molto bene. Come pochi altri sa dosare leggerezza, un tocco di cultura, si piazza davanti alle persone con una forma di ipotetica resa, di complicità fanciullesca, come a dire “perché non vuoi essermi amico?”, oppure, “giochiamo insieme?”; quindi nel frullatore inserisce esperienze personali, il suo passato (ormai molto passato) lavoro da panettiere, la scalata verso il riflettore, fino a conquistare ogni forma di apparenza e sostanza: radio, televisione, cinema, librerie. E da domani sul canale Nove (ore 23.30) torna con la seconda stagione di Untraditional, una serie ideata, scritta e interpretata da lui stesso, in cui racconta il suo sogno: produrre una serie tv ambientata a New York.
Che fa in Australia?
Un viaggio di un paio di mesi con moglie e figli; mi è sempre piaciuto andare in giro, anche quando non avevo una lira.
A quei tempi quali erano le mete?
Giamaica, Cuba, Brasile, Thailandia…
Turismo sessuale.
No! Vabbè, se iniziamo così, dove andiamo a finire?
Dipende.
Allora aggiungo gli States.
È nato nel Bergamasco, come mai ha un lieve accento genovese?
Ogni tanto me lo dicono; non ne ho idea, forse non ho una personalità ben delineata, sono una sorta di Zelig alla Woody Allen.
Prima dell’Australia era in Nuova Zelanda durante l’attentato…
La mattina dell’attacco stavamo per dirigerci lì, proprio all’ultimo abbiamo cambiato idea. Non ricordo neanche come mai.
Botta di fortuna.
Sì, però relativa: la zona dell’attentato non era comunque prevista dal programma, e poi certi atteggiamenti, a volte esagerati, sono solo italiani.
Cioè?
Mi è capitato anche quando vivevo a New York e c’è stato un caso di terrorismo: le reazioni più virulente giungevano dall’Italia, mia mamma in primis, agitatissima; al contrario lì era tutto normale, il suono della sirena è una delle colonne sonore della Grande Mela, quindi chi ci fa caso?
Così in Nuova Zelanda?
Esatto. Fuori dall’Italia la tragedia non viene vissuta come da noi; siamo il Paese dell’opera e della sceneggiata; i sentimenti vanno manifestati.
Giuliano Sangiorgi dei Negramaro la ringrazia per la compagnia a New York.
Sono suo grande amico, in quel periodo ci vedevamo spesso con Saviano; i due si assomigliano molto fisicamente, per questo a Giuliano consigliavamo: ‘Occhio, quando vai a Napoli è preferibile se giri con la chitarra al collo, così non rischi’.
Meglio evitare pericoli.
Con Giuliano ci siamo supportati in un momento difficile, e per vari motivi, compresa la parte professionale: io dovevo concludere il mio libro, lui l’album con i Negramaro. Ah, tutti e tre abbiamo preso l’aereo insieme.
Con tre star così, per statistica non poteva precipitare.
Questo pensiero l’ho avuto una volta sul Milano-Roma quando mi sono trovato con Paolo Bonolis, e lì mi sono detto: “Se cade non mi si fila nessuno, parleranno solo di lui”.
Pensiero amarissimo.
Un’altra volta ero insieme al cast di Buona Domenica, sai che sputtanamento.
Vende tantissimi libri eppure è molto attaccato.
Perché da noi il romanzo è sempre legato al mondo della cultura, nel resto del mondo non accade una reazione del genere; all’estero il libro può essere anche semplice intrattenimento, quindi si allentano una serie di pretese assolute che ghettizzano il lettore e lo scrittore.
C’è spazio per tutti.
Nei miei libri non parlo di ricette, non intrattengo con il pollo alla cacciatora. Il problema di molti è sempre lo stesso: vengo dal nulla e a certi livelli sono arrivato da solo.
Lei funziona.
Secondo bislacche logiche, se vendi molto non sei speciale.

Sostiene Pennacchi: “Il vocabolario dell’italiano medio non è da laureati in Lettere. Volo lo capiscono, me no”.

La differenza è tra fare l’amore e farsi le seghe.
Traduciamo.
Loro non sono liberi intellettualmente, io non inciampo perché volo sopra gli steccati.
Quanto ci ha pensato per spiattellare tal metafora?
Ora, è immediata. Non male, però.
Capolavoro.
Senta, sono un ragazzo di provincia, senza mai essere stato provinciale: sin da giovanissimo ho cercato di diventare un cittadino del mondo, e questa proiezione fisica e mentale mi è servita. Da noi ancora si litiga su tutto, i Guelfi e Ghibellini non sono circoscritti alla Firenze medicea.
Sono essenza.
Siamo in grado di litigare tra chi ama il tortellino e chi il cappelletto; possiamo scontrarci se è migliore la mozzarella campana o quella pugliese; da qui possiamo salire fino al concetto di “prima gli italiani”, poi ancora “prima la famiglia”, e magari alla fine pure la famiglia si spacca.
Sua moglie è islandese.
Loro se non restano uniti, muoiono.
Sono risorti da un grave crac.
Quando nel Parlamento islandese è stata proposta una legge per la parità contrattuale, non sono scese in piazza solo le donne, ma gli uomini, per difendere le proprie madri, mogli o figlie.
Vuole candidarsi?
Prenderei pochissimi voti, neanche quello di mia moglie, non ha il certificato elettorale; però ogni tanto mi chiedono delle opinioni o eventuali simpatie.
E…
Mi danno del qualunquista.
Renzi e Farinetti hanno provato a sedurla. 
In questi anni ho avuto accese discussioni, di persona, con Salvini, Berlusconi e lo stesso Renzi.
Come mai con l’ex Cavaliere?
Era ospite prima di me da Fabio Fazio, a un certo punto spara un assioma clamoroso: “I figli degli stranieri tifano per i terroristi”. Finita la sua parte sono andato a bussare al suo camerino.
Ha aperto?
È apparso con il suo atteggiamento complice, invece l’ho freddato con: “In televisione non può dire cazzate del genere. Deve utilizzare il carisma per aprire le menti, non per accecarle”.
Risposta?
Spiazzato, non ha quasi risposto, ha sussurrato qualcosa. Non è abituato a sentirsi dire certe cose.
Con Renzi su cosa ha litigato?
Lo Ius soli: una sconfitta intollerabile, mi sono proprio irritato.

Secondo le cronache lei a volte ha il caratterino.

Rispetto l’autorevolezza, non l’autorità; poi non sono neanche andato molto a scuola, quindi la sudditanza davanti al professore non l’ho registrata nella mia indole; comunque non resto quasi mai in pessimi rapporti, nel caso una birra non si rifiuta.
Con chi ne berrebbe una, Berlusconi o Salvini?
Berlusconi per una questione di età.
Com’è il suo ambiente professionale?
Pieno di gente che lecca il culo, ma è un modo per arrivare (Attimo di pausa, cambia tono, diventa ilare) In questi anni ho discusso con tutti i miei capi, con una soddisfazione: quando parlo mi ascoltano.
Insomma, è qualunquista?
Mi hanno affibbiato di tutto, anche l’appellativo di radical chic.
A lei?
Eh, a me. Quando basta vedere come e cosa mangio o come cammino per comprendere la portata della stupidaggine; poi del comunista, quello di destra, ancora comunista, e via così.
Quali sono le sue radici sociali?
Decisamente popolari, con venature da artigiano e commerciante.
È un creativo?
Sì, e questo mi impedisce di andare dall’analista, è un modo concreto di partecipare alla vita.
Impegnato.
Anche il programma che va sul Nove l’ho scritto da solo.
Però è poco social.
Non ho quel trip, sono parte di un’altra generazione, in quel gioco mi sento completamente goffo, non sono a mio agio, non sono uno come Fedez che è riuscito a pubblicare l’ecografia di suo figlio.
Riservato.
A casa mia c’è ancora la porta, e non è riservatezza, bensì pudore: credo nella legge della nonna, quella “dei panni sporchi si lavano in famiglia”, per questo non renderò mai pubbliche certe situazioni private.
Retrogrado.
Esatto!
Antico.
Io? Sono loro spesso gli stolti e invidiosi che attaccano Bonolis e la moglie perché hanno guadagnato molto e se la godono, mentre giustificano tutto ai vari ricconi sul trono da generazioni.
La prima volta che le hanno dato del “lei”. 
No, il segnale primario di invecchiamento l’ho percepito al ristorante, quando un cameriere mi ha chiesto se l’acqua la volevo a temperatura ambiente.
E si è guardato allo specchio.
In realtà non porto solo gli occhiali, per il resto il passaggio del tempo si nota ovunque.
È un problema?
Non è bello, ma la sfanghi se non ti ostini in una lotta inutile quanto cretina.
Nel suo mondo questa lotta è diffusa.
Eccome, una follia.
Fa parte di una generazione di speaker radiofonici fenomenali.
Sono molto bravo; meglio: sono uno dei più bravi.
Perché?
Sono spontaneo, non sono un esperto di musica, ma ho gusto musicale, e inoltre riesco a interagire con gli ascoltatori, quando prendo le telefonate plano sui loro interventi e quasi sempre riesco a estrarne il meglio.
Come scrittore?
Sono abile nel cogliere l’attenzione del lettore e coinvolgerlo. (ride) Sono iperattivo, il cervello va troppo veloce.
Cosa la fa sorridere?
Sto pensando a chi legge questa intervista, come minimo gli andrà di traverso la colazione e penserà: “Eh no, è troppo!”. E magari qualcuno mi verrà a tampinare sotto la radio.
La cercano mai?
Ogni tanto, ma riesco quasi sempre a ribaltare i piani, esattamente come con i giornalisti: diventano amici dopo avermi conosciuto.
Seduttore, appunto.
C’è un tentativo di ridimensionarmi. Un giorno ho incontrato Andrea Camilleri: “Bravo, non hai alcun atteggiamento arrogante, eppure sei in classifica; ma io vendo più di te”.
Da attore come si giudica?
Sono bravissimo!
Pure qui.
Lo so, mi massacreranno.
Probabile. 
Ogni regista con cui ho lavorato alla fine mi ha fatto i complimenti.
Per cosa?
Dicono sempre che la mia spontaneità mette a nudo gli altri attori; in sostanza il mio modo di stare sul set manda in crisi i professionisti del settore. Ora volteggio…
Cioè?
Sono leggero come una foglia, ma in realtà sono un tornado.
Qui i forconi arrivano davvero.
Per favore specifichi bene che rido.
Sinossi di Fabio Volo.
Non so cosa dire.
È la prima volta. 
Allora: meno bravo di quello che penso, e più bravo di quello che pensano gli altri.
E qui è decisamente serio.