il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2019
Intervista ad Alberto Asor Rosa
“Ma io volevo parlare del Cinquecento…”. Alberto Asor Rosa, in uno di quei pomeriggi romani così dolci da credere che la città sia davvero eterna, si fa strattonare il giusto verso la polemica politica spicciola. Classe 1933, storico della letteratura e intellettuale che ha attraversato mezzo secolo e più di studi di italianistica e battaglia politica a sinistra, ha dato da poco alle stampe un Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta, saggio in cui il trentennio non glorioso che va dalla morte di Lorenzo il Magnifico alla totale sottomissione della penisola alle potenze europee (1492-1530) viene raccontato alla luce dei pensieri e delle proposte del segretario fiorentino (gli uni e le altre, peraltro, completamente ignorati dai protagonisti dell’epoca). Sconfitta epocale e decisiva, che consegna per tre secoli e mezzo l’Italia alla minorità politica ed economica.
È curioso che lei abbia sentito il bisogno di tornare a una “disfatta”. Pensa di viverne una?
L’impulso originario di questo studio non riguardava la contemporaneità, ma proprio Machiavelli: l’occasione è stata il cinquecentenario del Principe (1513) che mi ha spinto a riflettere su un’opera che aveva fatto dell’Italia e del suo destino, forse più di quanto non venga detto di solito, la protagonista di un ragionamento politico di lunghezza d’onda tale da aver sfiorato anche i nostri tempi.
Professore, lei svicola…
Diciamo che più approfondivo questa componente del discorso machiavelliano più mi sembrava decisiva. Il nesso, su cui insisto molto, tra l’ultimo capitolo del Principe (un’esortazione a “redimere” l’Italia, ndr) e alcuni dei capitoli precedenti, in cui vengono poste le premesse di quella conclusione, mi spingevano a riflettere su una durata lunghissima del processo che si determina a partire da quel trentennio e in qualche modo arriva fino ai nostri giorni.
Lei ha scritto che “i classici sono sempre radicali” perché “vanno alla radice delle cose”. Cosa ci dice Machiavelli delle nostre radici?
Che la crisi della statualità italiana può essere definita un fatto endemico e strutturale. Machiavelli e il suo amico Guicciardini, ad esempio, apologizzano il periodo laurenziano, quello precedente la crisi, durante il quale per le virtù di Lorenzo il Magnifico l’Italia, ancorché divisa, era stata in equilibrio e in pace. Ma le radici della crisi stanno proprio lì, lì matura la disfatta. Anche andando più indietro ci sono casi simili: lo stesso Machiavelli cita il momento in cui i Longobardi si costituiscono in regno e il papato, timoroso di perdere autonomia, chiama Carlo Magno che, sconfiggendoli, rimette l’Italia nella sua posizione di strutturale disunione.
La sconfitta di inizio Cinquecento ha, però, un suo carattere decisivo.
Machiavelli, in sostanza, propone ai principi italiani di tentare di mantenere l’equilibrio e la pace in presenza di una spinta egemonica sempre più pressante delle nazioni europee avanzate. Questo non riesce e, d’altronde, non poteva riuscire: l’Italia a quel punto resta in una condizione di sottomissione e disunione politica e persino culturale per ben tre secoli e mezzo.
Quel problema però, le ha obiettato lo storico Galli della Loggia, non è endemico, finisce col Risorgimento: l’Italia si fa Stato.
Certo che c’è una forma di riscatto grazie al Risorgimento e alle sue “armi proprie”. Osservo però che nella nostra storia ci sono due momenti in cui le forze della disunione arretrano e sono Risorgimento e Resistenza: entrambe però, ma qui la discussione si allargherebbe all’infinito, dopo un certo numero di anni finiscono per riproporre la disunione come costante italiana.
Cacciari ha attribuito questa crisi endemica alla mancanza di una religio civilis.
Cacciari ci mette dentro, più di quanto farei io, elementi di tipo ideologico e psicologico-politico, ma diciamo la stessa cosa: nella coscienza dei cittadini italiani l’unità del Paese non è avvertita come un fatto necessario alla sua sopravvivenza. Machiavelli, in un momento di crisi acuta, ha eroicamente cercato di sovvenire all’assenza di questo spirito comune. Fallendo.
Il Novecento, con Gramsci, è stato il secolo in cui il moderno principe sono stati i grandi partiti popolari. In Scrittori e Massa, però, lei sostiene che il popolo, come costruzione politica nazionale e popolare, è scomparso.
Da qualche anno mi sforzo di spiegare, peraltro inutilmente, che è scorretto parlare di popolo perché il popolo, compreso quello di cui parlai in Scrittori e Popolo oltre 50 anni fa, non c’è più. Il popolo è un organismo dotato di una sua molteplice identità che non esclude una conflittuale unità. Nel popolo c’è la borghesia, la piccola borghesia, il proletariato di fabbrica, i contadini e così via: le diverse parti sono in conflitto, ma l’insieme è identitario. La mia tesi è che questa cosa sia venuta meno: ciò con cui abbiamo a che fare è piuttosto un insieme di individui che si riconoscono affini per macro-forme di identificazione e interessi. Ovviamente la massa ha un rapporto sommario e primitivo con l’idea di nazione e può essere governata con approssimazioni ideologiche che a quell’idea si riferiscono, ma in realtà ne prescindono.
Quando avviene questo passaggio?
Restando alla formula gramsciana, in Italia la Resistenza costruisce una realtà politica unitaria al cui centro sono i grandi partiti, moderno principe. Questa funzione viene meno nel corso degli anni 80 e 90 quando i partiti popolari, per motivi che sarebbe lungo spiegare, escono di scena e si affermano forze fondate sulla disunione e sull’affermazione solitaria del capo.
Parliamo della sua parte politica. Nel suo Il popolo perduto Mario Tronti scrive: “Il dramma, almeno per me insopportabile, è in una sinistra di benpensanti e una destra di nullatenenti”, è “stare con chi alle nove entra all’Auditorium contro quelli che alle sei escono di casa”.
Consento di sicuro con Tronti quando pensa che questo non sia accettabile, ma la situazione è questa, inutile recriminare: se la sinistra rimane questa è quasi naturale che resista solo nei ceti abbienti.
Resterebbe il “che fare?”…
Ma non dovevamo parlare del Cinquecento?
Facciamo rispondere Machiavelli?
Niccolò ha fallito su quasi tutto, anche se rispondesse…
Allora resta lei.
La dico così: esiste una dimensione dell’interesse economico che la sinistra ha messo tra parentesi. Mi spiace scendere a questi livelli, ma basta verificare quali sono stati i programmi e le parole d’ordine di un signore chiamato Matteo Renzi per rendersi conto di come la sinistra abbia perso presa sui ceti popolari. È il sociale che va affrontato di nuovo economicamente, culturalmente e, se posso dire così, persino antropologicamente.
Che intende?
Bisognerebbe che gli uomini della sinistra assomigliassero di più ai loro interlocutori popolari, invece ne sono così diversi come cliché umano che è difficile pensare che riescano a superare questa barriera. Ma li guardi: come si muovono, come parlano…
Concludendo, nel libro c’è come un’aria di famiglia: come se lei si fosse identificato nel segretario fiorentino.
Ma questo è inevitabile quando si studiano personaggi di questa altezza. Per Machiavelli, poi, provo una simpatia straordinaria.
Perché?
Capiva tutto e le ha prese, ma tante, fino in fondo.