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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Biografia di Angelo Guglielmi raccontata da lui stesso

Corre dappertutto, felice e impulsivo fino alla punta dei capelli. E si pensa a lui come all’omino del cinema muto che si agitava a velocità innaturali. Nell’infatuazione per il movimento non ha mete apparenti. Vaga tra letteratura, televisione e cinema e perfino la politica (è stato assessore a Bologna) come un dromomaniaco. Un uomo incapace di stare fermo e per questo perennemente alla ricerca di un centro che non trova e che forse neppure desidera. Angelo Guglielmi è tra gli ultimi, felici esemplari di maratoneti dello spirito che sulla soglia dei novant’anni (li compirà tra qualche giorno) può sempre esclamare: sono stato un uomo frettoloso. Non capisco se egli si ami o si detesti. Alla fine credo che entrambi i sentimenti occupino i resti spogli dei suoi ultimi anni, ancora imperiosi come sembra dimostrare il libro in uscita Sfido a riconoscermi (edito dalla Nave di Teseo), un tumultuoso autodafé, unaconfessione tormentata ma senza rogo finale.

Spesso hai dichiarato che detesti parlare di te.
«Detesto fare letteratura autobiografica. Roba per signorine di una volta che ricamavano nei conventi».
Che c’è di male?
«Trovo stonate quelle belle scritture, che poi quasi mai lo sono, che si raccontano perdendo il senso della realtà, delle cose che sono veramente accadute. La vita è molto più dura della letteratura».
Allora che senso ha il tuo libro con quel titolo: “Sfido a riconoscermi”? Chi sei veramente?
«Provo a raccontarmi in una sorta di grado zero. Per capire quanto la mia infanzia abbia inciso sulla vita adulta».
C’era bisogno di scrivere un libro?
«Sarei potuto anche andare da un analista, ma sono vecchio. Tu mi vedi sul lettino a piagnucolare davanti a un estraneo? Una scrittura senza abbellimenti mi ha aiutato a comprendere certi fallimenti».
Insomma cos’è che non va, cosa ti rimproveri?
«La mia frettolosità. Da bambino vivevo sempre di corsa. Ero ossessionato dalla velocità. Mi ribellavo ai limiti che sono propri del bambino. Già a sei anni giravo in modo autonomo per la città. A sette cominciai a prendere il treno da solo».
Dove andavi?
«In un paesino della Puglia: Spinazzola, dove avevo una zia e delle proprietà. C’era la guerra e un anno mi ritrovai sotto le bombe dalle parti di Foggia. Ero terrorizzato ma al tempo stesso attratto dal pericolo. Divertito. L’esaltazione mi faceva perdere il senso delle proporzioni».
Eri davvero strano.
«A 11 anni dimostravo ancora l’età di un bambino di sei. Ero piccolo, brutto, rachitico e mal vestito. I miei amici mi sfottevano».
Tu come reagivi?
«Non potevo certo fare a botte, vista la mia gracilità. Ben presto mi lasciai attrarre dai libri. Avvertivo oscuramente che quello sarebbe stato il mio mondo. Cominciai a leggere D’Annunzio, senza capire quello che leggevo. A tredici anni presi in mano dei saggi di filosofia. Sembravo un idiota che perdeva tempo davanti a libri illeggibili per uno della mia età».
In famiglia si preoccupavano?
«Mia madre doveva badare a sette figli, era una schiava, ma ironica e intelligente. Mio padre viaggiava, perciò era quasi sempre fuori. Lavorava come funzionario del ministero dei Trasporti. Ero solo. Abbandonato alla mia ossessione motoria».
Che effetti ha prodotto sulla tua crescita?
«Diventato adulto ebbi la sensazione che quegli impulsi irrefrenabili li trasferissi al piano mentale. Leggevo tutto molto velocemente. Cataste di libri che compulsavo al ritmo di un mezzofondista. Senza mai un approfondimento. Che ti devo dire: fin da ragazzo sono stato intelligente ma privo di talento».
Che intendi per talento?
«Riuscire negli impegni pratici della vita senza sconfitte o rinunce. E io quasi sempre per evitare le sconfitte, me la davo a gambe, ricorrendo alla rinuncia».
Ne soffrivi?
«Come un cane. Vedevo, ad esempio, i miei amici serenamente fidanzati e io solo. Anche se ambivo ad avere una ragazza avevo paura di avvicinarla. Cosa potevo offrirle? Non sapevo ballare, non ero spiritoso, per giunta complessato dalla magrezza, se mi azzardavo a fare il saccente — i libri erano il mio solo argomento spendibile — finivo puntualmente sbertucciato».

Di quali anni stai parlando?

«Gli anni dell’università. Sono nato per caso ad Arona e vissuto per un po’ a Torino. Poi a Roma. Seguivamo nostro padre nelle sue peregrinazioni. Nel 1945 ci trasferimmo a Bologna. Mio padre ebbe il compito di ricostruire la parte di rete ferroviaria bombardata. Qui ho fatto il liceo e gli studi universitari. Città ricca di tentazioni. Da cui ero escluso. A un certo punto non potendo avere una vita amorosa mi dedicai a quella erotica».
Lo sfogo sessuale.
«Cominciai ad andare con donne sposate. Perfino con le mogli dei miei amici».
Era la tua vendetta.
«Non più rinunce ma rivalse».
In tutta questa tribolazione ti laurei.
«Con Carlo Calcaterra su Leopardi e la poesia romantica. Ma i miei punti di riferimento furono Roberto Longhi che però si trasferì a Firenze, e soprattutto Luciano Anceschi, i cui stimoli letterari favorirono il mio ingresso nel Gruppo 63».
Immagino l’invidia dei tuoi amici.
«Se ne fottevano, ma io no. Io credevo di essere salito sul treno giusto».
Chi ti aveva staccato il biglietto?
«Mi ero occupato di Gadda, con una densa recensione al Pasticciaccio. Credo di essere stato il primo a farlo uscire dalle secche del rondismo. Umberto Eco mi consegnò, agli inizi del 1963, una lettera di Giovanni Getto, in cui l’illustre italianista elogiava il mio articolo. Era come se per la prima volta qualcuno di importante mi dicesse: Angelo, tu esisti come critico!».
Hai svolto un ruolo da protagonista nel Gruppo 63, insieme a tutti quelli che avrebbero cambiato il modo di intendere la letteratura.
«Arrivai prima di tanti altri a intuire che la letteratura doveva modificare i propri codici di accesso alla realtà. Ero stato veloce e tempestivo, qualità che nel gruppo vennero apprezzate. Ma non ero il classico studioso. All’epoca già lavoravo in Rai. Non somigliavo in niente a figure come Sanguineti, Giuliani, Manganelli, Eco. Gente dotata di una forte tempra intellettuale».
Vuoi dire che non ti sentivi alla loro altezza?
«Ero insicuro e superficiale. Ho vissuto come una colpa la scarsa profondità del ragionamento e la mancanza di finezza filologica con cui loro argomentavano le loro tesi. Poi, come reazione, ho cominciato ad annoiarmi».
Cosa ti annoiava?
«Le riunioni, i convegni, gli interventi. Tutto improvvisamente era diventato ripetitivo. Presi a disertare gli incontri. Le poche volte che vincevo l’impulso alla fuga finiva che mi chiudevo in un angolo, restando a bocca chiusa, intristito dalla situazione».
Avevi pur sempre la Rai. Com’eri finito a lavorarci?
«Sia io che due miei fratelli, Guido e Giuseppe, eravamo alla ricerca del mitico posto fisso. Sapemmo di un concorso come programmisti e ci presentammo. Passammo lo scritto e poi demmo l’orale. Seppi, qualche settimana dopo, che un Guglielmi era nell’elenco dei 40 che ce l’avevano fatta. Pensai subito che a vincerlo fosse stato mio fratello Giuseppe, il più brillante. E invece fui io il prescelto. Fu così che tornai a Roma».
Quando ti hanno nominato direttore delle Terza Rete?
«Nel 1987. Entrai con la ferma convinzione di sbaraccare tutto».
Ci sei riuscito, la tua televisione è stata una piccola grande rivoluzione culturale. Ti sei mai chiesto come hai fatto?
«Tutto quello che non ho realizzato sul piano letterario si è materializzato nella mia direzione».
Forse occorrevano proprio quelle doti di velocità che fin da bambino ti hanno contraddistinto.
«La rapidità è stata una componente essenziale. Direi perfino un certo modo di essere superficiale e frettoloso mi ha aiutato. Ma il tratto decisivo è stato il gusto della provocazione che avevo ereditato dal Gruppo 63. Per tutte le cose che ho realizzato, insieme ai tanti collaboratori, mi meraviglio che non mi abbiano mai cacciato».
Avevi imposto la pratica dell’alto-basso.
«Fu fondamentale. Era il periodo delle nuove televisioni dove dilagava il trash. Non potevi contrastarlo con dosi massicce di moralismo. Occorrevano intelligenza, ironia, curiosità e soprattutto una complicità nuova con lo spettatore. Oltretutto, personaggi fondamentali per la nostra televisione come Baudo e Carrà avevano accettato le offerte miliardarie di Fininvest».
C’era il rischio di perdere il primato degli ascolti?
«I dirigenti non ci dormivano la notte. Noi della terza rete inventammo programmi che sarebbero durati nel tempo: Profondo Nord, Milano- Italia, Samarcanda, Un giorno in pretura, Chi l’ha visto?, Mi manda Lubrano e poi Il portalettere di Chiambretti, La tv delle ragazze. Naturalmente Blob, una striscia di straordinaria ironia fatta di immagini e parole. Fu un modo nuovo di realizzare spettacolo e politica».
C’è qualcosa che avresti voluto fare e non ci sei riuscito?
«Un progetto, che sarebbe stato strepitoso per i suoi effetti imprevisti, fu accostare due personaggi assolutamente unici e diversi: Beniamino Placido e Gianfranco Funari. La bestia e il professore, questo era il titolo. Poi Funari ci ripensò, anche lui cedette alle offerte miliardarie di Fininvest. Peccato. Sarebbe stata una grande trasmissione».
Però Placido lo hai utilizzato.
«Certo, facemmo diverse cose, ricordo un programma con lui e Montanelli, il quale era la prima volta che si prestava al piccolo schermo. Furono strepitosi. Ti confesso che invidiavo la loro intelligenza limpida e ironica. Poi ci fu anche Federico Zeri, il grande critico, che avevamo immaginato seduto su una panchina dei giardinetti, accanto a una vecchietta che chiede l’elemosina, mentre lui le parla d’arte. Ecco come inventammo il divertimento intelligente».
Trovi che sia una formula che abbia resistito?
«Ci sono delle tracce che sopravvivono qui e là e non necessariamente alla Rai. Quello che non è sopravvissuto, ahimè, è il talk show. Se faccio un giro tra i canali ho la netta impressione che sia un morto che cammina».
Cosa non funziona più?
«È la politica che non funziona. Fiacca, demagogica, urlata. Gestita da comprimari che si sentono tenori. Ma ad ognuno è toccato il proprio tempo storico».
Del tuo sei soddisfatto?
«Moderatamente, diciamo che la televisione ha compensato i miei fallimenti letterari».
Ne sei certo?
«Lo penso e sono sincero».
A proposito di sincerità, tra le tante cose che ti hanno afflitto da bambino c’era anche la tua propensione a mentire.
«Sono stato un bugiardo, ma ancor più grave è che da adulto ho continuato ad esserlo senza ragione».
Cosa vuoi dire?
«Intendiamoci, niente di compulsivo. Qualche bugia ogni tanto. Ma mentre da bambino era un modo per dare lustro alla mia condizione sociale o sentirmi più adulto, crescendo ci scovavo un piacere intellettuale».
La menzogna come letteratura.
«Era quello che sosteneva, secondo me giustamente, Manganelli. Ma in realtà parlo di un meccanismo più privato, quasi una debolezza che col tempo si è rivestita di senilità».
Sei mai stato scoperto?
«Sì e ti confesso che la cosa mi ha umiliato».
C’è un episodio particolarmente doloroso o imbarazzante?
«Con il mio amico Giovanni Urbani, ci si vedeva quasi tutte le sere. Uomo straordinario, colto, raffinato. Un vero signore. A lui raccontai episodi della mia vita che non erano mai accaduti. E quando per caso lo scoprì avvertii come un senso di disprezzo che decretò la fine della nostra amicizia».
Ne hai sofferto?
«Al punto da sentirmi sopraffatto dalla vergogna».
In fondo erano delle balle innocenti.
«Certo, ma lui avrà pensato che non avevo il diritto di trattare un’amicizia a quel modo. E credo che avesse ragione».
Sei sempre così severo con te stesso?
«In questi anni ho cercato di capire come sono: pregi e difetti. Non mi piace l’indulgenza. Non ero indulgente come critico. E non voglio esserlo verso di me».
Come affronti i tuoi novant’anni?
«Possono essere terribili o consolatori. I miei arrivano in condizioni di salute decente. Ho una mamma che si è spenta a 102 anni. Perciò non chiedermi come sarà il mio futuro».
Del passato cosa rimpiangi?
«Di non essere diventato un grande critico. Uno come Contini o Debenedetti. Per intenderci».
Sarebbe stato così importante?
«È una questione privata. Un dialogo tra me e le mie mancanze. Dove gli altri vedrebbero un desiderio frustrato io scorgo un pezzo di vita irrealizzata. Mi chiedo se avrei mai avuto la stoffa per diventarlo veramente».
Ti sei dato una risposta?
«Non ci sono risposte. Almeno io non sono in grado di trovarne. Ciò che si annida nell’anima è un come vorrei essere stato. E non so se sia una falsa pretesa, un falso ricordo, una falsa immagine di me. So che la consapevolezza porta qualcosa di nuovo. Ma complica la vita».