Robinson, 31 marzo 2019
Porta Venezia impacchettata con sacchi di juta
La gente si ferma e guarda in su. Dall’alto degli edifici cade a pioggia un manto enorme che copre come un cappuccio i caselli neoclassici di Porta Venezia a Milano. Un patchwork monumentale di sacchi di juta cuciti con lo spago li riveste dal marciapiede alle terrazze. Tremila metri quadri di arazzo. Da lontano il colore del tessuto ricorda quello delle cortecce.
Giganteggiano come tronchi di sequoie. Da vicino tutto si alleggerisce. Il mantello è un sipario che oscilla. In cima al cornicione sei guide alpine arrivate dal Lago di Como stanno terminando di sigillare le fascette. Sono imbragate e armate di corde e moschettoni. Per dieci giorni hanno scalato un’architettura al posto di una montagna. In genere lo fanno sulle pareti specchianti dei grattacieli per lavare i vetri ad altezze vertiginose. Questa volta sono state ingaggiate dalla Fondazione Trussardi e dal suo direttore Massimiliano Gioni per montare l’opera d’arte colossale di Ibrahim Mahama, il giovane autore ghanese, classe 1987, che ha conquistato la Biennale del 2015 col suo corridoio d’uscita dall’Arsenale, un canyon di canapa grezza, epico e tragico allo stesso tempo. A Milano per l’Art Week, dal 2 al 14 aprile, gli edifici dei caselli non sono stati scelti a caso. «Ci piaceva l’idea di lavorare sul tema delle porte con un progetto su scala urbanistica – spiega Gioni – è un’incursione forte in città che tocca un luogo carico di storia e di significati». Qui sorgevano le porte d’epoca romana, poi medievale e spagnola. La famosa Porta d’Oriente segnava il confine fra città e campagna al tempo della peste manzoniana. Quando Renzo, arrivando da Monza, la attraversò in cerca del convento di Padre Bonaventura, c’erano solo due pilastri, una tettoia e il presidio delle guardie. Il complesso daziario venne costruito nel 1827 e da allora fu punto di scambi, di valutazione delle merci.
Ed è questo che ha affascinato Ibrahim, sensibile al tema dei traffici e dei commerci che segnano l’identità dei territori. Parla piano, anzi sussurra: «Questo passaggio continuo di popoli e prodotti che resta scritto nella memoria del luogo è una metafora di tutti i grandi transiti».
Perché coprirlo dunque? «Per sottolinearne la percezione, aumentarne il senso di presenza». In questo, somiglia tutto all’ambizione smisurata di Christo e ai suoi impacchettamenti di edifici o porzioni di paesaggio, cancellati dalla vista ma restituiti al ricordo. Con la differenza che Mahama non usa tessuti tecnici fluorescenti, ma vecchi sacchi usati per i grani, il carbone, soprattutto il cacao, monopolio di stato gestito dalla Ghana Cocoa Board che dall’Africa (sfruttata) parte per il resto del mondo. Il marchio cupo della compagnia spicca sui pezzi di juta e rimbalza lungo le pareti, mescolato ad altre scritte impresse da ditte minori che li hanno riciclati. Qui il pensiero corre al senso politico dei sacchi di Burri. Tormentati, strappati, logorati dai viaggi, sono il simbolo di una economia sfibrata e di un sistema che umilia uomini e donne senza diritti, impiegati nello stoccaggio ai margini del Paese. Molte di queste persone oggi lavorano per lui. «È un lavoro collettivo che aggiunge un’altra tappa alla vita di questi brandelli, ricuciti da nuove mani. Il processo di rigenerazione fa parte dell’opera, spesso testimoniato da foto e video» ci tiene a dire. E avviene tutto nel suo laboratorio. Che non è il classico studio di Londra o Düsseldorf dove molti artisti africani in fase di lancio si sono trasferiti. Ma è una stazione dismessa nell’area di Tamale, abbandonata dagli inglesi durante il periodo coloniale, dove Ibrahim consegna ai mercanti sacchi nuovi in cambio dell’usato. Un circuito virtuoso e un backstage che si legge in sottotraccia nell’installazione affacciata verso i quartieri multietnici che ruotano attorno ai caselli.
Il messaggio è forte. «In più – aggiunge Gioni – cita un capitolo di storia milanese votata al contemporaneo. Proprio Christo fu tra i protagonisti in Duomo e in piazza Scala del Festival del Nouveau Réalisme nel 1970, che segnò la fine di un’epoca». L’arte di Mahama dovrebbe, invece, fare riflettere sul futuro. Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. All’indomani delle ultime cronache di porti e migrazioni, colpisce al cuore.