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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Biografia Peggy Guggenheim raccontata dalla nipote

Peggy Guggenheim non abita più qui. Ma il suo spirito, quarant’anni dopo la morte (23 dicembre 1979), soffia ancora tra le sale di Palazzo Venier dei Leoni, a Venezia, dove lei arrivò nel 1949. I duecento artisti della collezione sono appesi intatti alle pareti bianche. Come la testiera del letto firmata da Calder o il primo dripping di Jackson Pollock, appena restaurato. In giardino, la lapide con le ceneri di madame, accanto a quella dei 14 cagnolini, sembra vigilare sulle sculture. Qui, dove 400mila visitatori arrivano ogni anno, ha ballato il Novecento: Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal, principi e poeti beat. Le loro firme sono sul libro degli ospiti. A fare gli onori di casa, dal 2017, c’è la nipote di Peggy, Karole Vail, prima direttrice della Guggenheim Collection, dopo i 37 anni di gestione di Philip Rylands, che trasformò la residenza della grande collezionista americana in un museo. Ha gli stessi occhi della nonna che d’estate la portava in gondola sul Canal Grande a scoprire le chiese veneziane, Tintoretto e Carpaccio.

Mrs Vail, che nonna è stata Peggy Guggenheim?
«Una nonna inconsueta. Venire in questa casa, da bambina, faceva sempre una certa impressione. La notte, in stanza, i quadri dei surrealisti mi spaventavano con quelle creature mostruose... non sono mai stati i miei preferiti. Ricordo che io e mia sorella cavalcavamo la scultura di Arp in giardino, come se fosse un parco giochi. Peggy è stata una delle ultime persone a Venezia ad avere una gondola privata. Mi portava in giro per i canali: essendo cresciuta a Parigi, credevo che l’Italia fosse tutta sull’acqua. Peggy mi obbligava a scendere dalla gondola per andare a visitare le chiese: è stata un’educazione all’arte un po’ speciale».
Sua nonna, ancora in vita, aveva aperto la sua casa al pubblico per condividere le sue opere.
«Sì, la casa era accessibile a tutti tre volte alla settimana. E lei amava vedere la reazione della gente nelle sale davanti ai quadri. Aprire la casa è stato un grande dono alla comunità. Era l’impegno più grande della sua vita».
È vero che fu Samuel Beckett, uno degli amori di Peggy Guggenheim, a spingerla a diventare collezionista?
«Beckett la invitò a concentrarsi sugli artisti viventi perché l’arte è una cosa viva. Lei lo ascoltò. Sapeva da chi farsi consigliare, si affidava molto agli uomini per i suggerimenti. Ma poi faceva di testa sua. Era più che emancipata per i suoi tempi».
Gore Vidal, nella prefazione all’autobiografia di Peggy (uscita in Italia da Rizzoli), scrive però che a lei non interessava diventare una paladina del femminismo.
«Lei si sentiva molto libera di suo, era riuscita a uscire dalle restrizioni di una vita borghese. Aveva molti amori e non ne faceva mistero. La famiglia Guggenheim provò a comprare tutte le copie dell’autobiografia per bruciarle, ma non ci riuscì».
Chi fu il grande amore di Peggy?
«Non so se sia giusto cercare di capire gli amori di mia nonna (ride). Era legatissima al padre, morto sul Titanic. Andava più d’accordo con i mariti, una volta diventati ex. Disse che il suo grande amore fu lo scrittore inglese John Holms, morto precocemente. Il surrealista Max Ernst, il secondo marito, era un grande amore, ma non del tutto ricambiato. Lui si approfittò di Peggy che lo aiutò a scappare dall’Europa. Grazie a questo rapporto, però, lei ottenne molte opere importanti».
Gli intrecci tra gli amori e la collezione di opere sono inevitabili.
«Sì, lei amava collezionare opere legate ai rapporti familiari e intimi con gli artisti. Adorava il surrealismo, sia perché era a Parigi negli anni Venti con il suo primo marito, mio nonno Laurence Vail. Sia poi per le relazioni con Max Ernst e Yves Tanguy. Ma, al di là degli affetti, aveva capito che doveva puntare sulle avanguardie del XX secolo».
Fu lei la grande mecenate di Pollock, ma in seguito diede via diciotto sue opere.
«Sì, aiutò Jackson Pollock dal 1943, ben prima che la carriera del pittore esplodesse. Peggy donava le opere a tanti musei universitari americani perché gli artisti potessero circolare ed essere conosciuti. Aveva una visione educativa dell’arte. Anche se poi rimpianse quei Pollock lasciati».
Da direttrice, che lacuna individua nella collezione di sua nonna?
«Ho un debole per Moholy- Nagy, l’ungherese del Bauhaus, che purtroppo in collezione non c’è. Era un artista eclettico, pioniere dell’astrazione e grande educatore. Ma Herbert Read, che aiutò Peggy a formare una lista di artisti, non lo apprezzava».
Oggi che gestisce la collezione, quando deve prendere una decisione, si pone mai il problema di che cosa avrebbe pensato Peggy?
«Cerco di rispettare il suo pensiero. Voglio certamente fare onore a lei e alle sue scelte. Ma non mi pongo tanto il problema di che cosa avrebbe pensato. Mi auguro che sarebbe stata felice di lasciarmi una certa libertà. Non siamo in un mausoleo: c’è ancora un enorme lavoro da fare qui, con le mostre soprattutto. Non dobbiamo necessariamente restare ancorati al Novecento. L’arte è un mezzo per capire il mondo e per rendere la vita migliore. Dobbiamo insistere su questo».
Un’ultima domanda: che fine hanno fatto gli occhiali a forma di farfalla che sua nonna sfoggia in decine di fotografie? Li ha mai messi?
«Gli occhiali li ha ricevuti prima mio padre. Oggi li abbiamo io e mia sorella. Non sono molto pratici da mettere. Non indosso nulla di mia nonna. Per me è sufficiente stare qui con la sua collezione. Mi sembra abbastanza».