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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Lunga intervista a Jonathan Franzen

«Anche in un mondo che muore continuano a nascere nuovi amori ». Solo uno scrittore come Jonathan Franzen poteva scegliere di chiudere in questo modo un saggio estremo fin dal titolo, La fine della fine della Terra. Una frase dove c’è tutto, la vita e il suo contrario, l’origine e il limite, il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, sempre solo sfumature perché il mondo è condannato a sfuggire a ogni correzione. E se i ghiacci si sciolgono, gli oceani evaporano, i volatili smettono di volare e il riscaldamento globale minaccia la stessa specie umana, a salvarci provvederà sempre qualcosa, un sentimento implacabile o la letteratura.

Nella sua casa californiana di Santa Cruz, seduto alla piccola scrivania dove tiene i rapporti con il mondo, Franzen ripensa a quella sintesi di opposti. «Lei crede che la chiave di lettura dei miei saggi stia lì? Sono piuttosto restio ad attribuire a una singola frase il peso di un intero libro. Però sì, penso che l’interpretazione sia giusta». Le sue risposte arrivano puntuali e argomentate, come a marcare una distanza dalla civiltà dei tweet e dei post frettolosi a cui da tempo ha dichiarato guerra, non senza riceverne indietro qualche sfregio. I malevoli lo accusano di preferire il birdwatching alla letteratura, non avendo più pubblicato romanzi dopo Purity, uscito nel 2015. In realtà è al lavoro su una nuova scrittura narrativa che si annuncia estesa, ancora più dei precedenti fluviali romanzi. «L’ho proposto a vari editori un anno fa, ma sono troppo superstizioso per parlarne in corso d’opera. Posso solo dire che ho scovato molto più materiale di quanto pensassi, e che il romanzo ha finito per essere tre romanzi diversi, in tre volumi separati».
Anche la scelta di un genere non proprio mainstream come il saggio è il suo modo eccentrico di mettere ordine in una epoca confusa e irrazionale, «come un pompiere che si tuffa in mezzo alle fiamme della vergogna mentre tutti gli altri scappano». In questi nuovi scritti lei racconta un mondo alla deriva — per l’involuzione politica in Occidente e per il degrado ambientale — eppure è come se non volesse perdere del tutto la speranza.
«Sì, in parte è così. Ma vorrei notare che sul piano politico i nostri tempi appaiono bui solo per coloro che si collocano a sinistra, in un contesto idealmente internazionalista. Ciò che invece appare innegabilmente disperante per tutti è la condizione ambientale del pianeta. A un certo momento del decennio scorso, per ragioni che spiego nel mio nuovo libro, la catastrofe climatica è diventata da probabile a inevitabile. E quel che ho tentato di fare negli ultimi saggi è misurarmi con questa inedita e improvvisa caducità del mondo».

Che cosa la inquieta di più?
«Il fatto che non siamo solo io, la mia famiglia o i miei amici a essere condannati a morire presto, ma intere zone del pianeta, inclusa la maggior parte degli oceani. Questo è terribile. È sconvolgente soprattutto per chi ha a cuore la natura. Ma questo non significa che la storia finisca qui. Accettare che il nostro mondo stia per cambiare in modo colossale e imprevedibile non può che renderci più attenti a ciò che amiamo».
Ha visto qualche settimana fa le piazze di tanti paesi colorarsi di verde? Erano i ragazzi che hanno manifestato per il clima.
«Le confesso con imbarazzo che non ne sapevo niente. Negli ultimi trent’anni non ho mai avuto l’impressione che l’umanità fosse in grado di impedire la catastrofe ambientale, ma ora è davvero troppo tardi: il riscaldamento globale è cosa fatta. E se un incremento di quattro gradi della temperatura è meglio di un aumento di sei gradi, resta sempre una catastrofe. E quindi queste manifestazioni di massa a sostegno di generiche iniziative verdi mi sembrano puramente simboliche, come manifestare contro la morte. La morte non piace a nessuno! Ma cosa possiamo farci?».
Lei si definisce un pessimista depresso, ma sembra più un vezzo.
«A noi pessimisti depressi piacciono le battutine».
Ma un pessimista depresso non si mette a scrivere saggi: in fondo il saggio nasce come atto di fiducia nella ragione, insieme all’ottimismo della volontà.
«Confidare nella propria ragione non esclude una condizione depressiva: in realtà è quasi la definizione stessa del realista depresso. Io continuo a scrivere saggi per i lettori che alle mezze verità della politica preferiscono la sincerità fuori dai denti. L’onestà è ciò che come lettore io cerco nella scrittura. Èstata l’onestà assoluta di Elena Ferrante a farmi innamorare dei suoi romanzi ambientati a Napoli. Essendo un realista depresso — o, meglio, avendo finalmente accettato di esserlo — so anche che i miei saggi non avranno un pubblico particolarmente esteso».
Lei scrive sia saggi che romanzi, che riprendono in forma diversa gli stessi temi. In che modo i due generi dialogano tra loro? Che cosa la spinge in una direzione o in un’altra?
«Le dirò una cosa poco onorevole, ma l’impulso a scrivere molti dei miei saggi nasce da un momento di rabbia. Mi metto a scrivere quando mi sento costretto a raccontare la verità per sbugiardare qualcun altro. O quando prevale il desiderio di complicare certe questioni che altri fanno facili. O quando voglio mostrare qualcosa di malvagio che gli altri non vedono. Solo un numero più esiguo di miei scritti sono il prodotto di qualcosa di interessante che mi è successo. Ma, nel bene e nel male, accade di rado: sono uno scrittore che passa le sue giornate in una stanza buia».
E nei romanzi la rabbia non entra?
«La rabbia può essere un punto di partenza, ma una volta che mi trovo dentro un racconto devo lasciarla sbollire, perché non è compatibile con la prospettiva comica e tragica che io credo sia necessaria alla letteratura. E la cosa meravigliosa della finzione è che non mi sento costretto in una mia personale storia di vita piuttosto noiosa. Mi posso inventare delle storie che si riallacciano ai processi interiori, alla mia vita psicologica che è meno soporifera».
Eppure la relazione tra saggio e letteratura resta forte. Lei stesso ricorda che alle radici del saggio c’è la letteratura.
«Penso soprattutto a quella letteratura che invita a chiederci se per caso non abbiamo un po’ torto, o addirittura completamente torto, e a immaginare perché qualcun altro potrebbe odiarci. Il mio esempio classico sono le opere di Alice Munro».
A me pare che questa definizione valga anche per i suoi romanzi.
«Sì, questa è una delle ragioni per le quali non mi pare di essere capace di scrivere romanzi brevi: non ho mai l’impressione che un solo punto di vista, o perfino due o tre punti di vista, siano sufficienti per catturare la difficoltà di sapere chi ha ragione e chi ha torto. Né può bastare un solo momento sul piano temporale. Io ho bisogno di molte prospettive e dello scorrere degli anni».
Ovunque — sia nei suoi saggi che nei romanzi — si avverte una sorta di insofferenza verso le ipocrisie del politicamente corretto. Lei sta dalla parte dei progressisti, ma non sopporta alcune retoriche che covano nell’ambientalismo o nell’opposizione a Trump, che pure ritrae come “il cafone dalle dita corte”. Che cosa c’è dietro questa sua insofferenza?
«Credo che si tratti della mia fedeltà all’arte, in particolare alla letteratura. Essere convinti di aver ragione è fondamentale per il politico e nefasto per l’artista. I politici che dicono sempre la verità non fanno molta strada, mentre un artista che sopprime la verità vale poco come scrittore. Per questo persiste un conflitto tra me e qualsiasi movimento politico di massa. Poi interviene una ragione più privata».
Quale?
«Io e i miei due fratelli siamo il prodotto di genitori che coltivavano il conflitto dentro loro stessi. Nel 1960 votarono per John Fitzgerald Kennedy e quattro anni dopo — ne sono abbastanza certo! — per l’ultraconservatore Barry Goldwater. Vuole sapere perché? Odiavano il rivale di Kennedy, Richard Nixon, e il rivale di Goldwater, Lyndon Johnson. Così i miei fratelli e io siamo tutti diventati dei buoni democratici di sinistra, ma pare che io abbia ereditato un residuo dell’indipendenza di pensiero dei miei genitori».
A proposito della sua indipendenza, sono costretta a farle una domanda sulla passione sugli uccelli, anche se so che detesta parlarne. D’altra parte le specie volatili occupano quasi tutti i suoi ultimi saggi. Ma credo di aver trovato la chiave di questa ossessione ornitologica in una pagina di "Zona Disagio", il suo lavoro autobiografico.
«In quel libro racconto quando ho scoperto il birdwatching, rendendomi conto che quel che provavo per gli uccelli andava oltre l’amore. Era una completa identificazione: non per le moltitudini ben inserite, ma per i volatili che non riuscivano a integrarsi. L’aspetto dei miei compagni emarginati corrispondeva a come mi sentivo io».
Forse la domanda è un po’ azzardata, visto che qualche anno fa Time l’ha consacrata in una copertina, ma è come se lei faticasse sempre a integrarsi. È questo il filo che lega ornitologia e letteratura, che è la casa dei non integrati?
«Direi di sì, concordo con questa interpretazione».
La letteratura contiene in sé una ricerca dell’estremo?
«Nei miei romanzi e in particolare in Purity credo di essermi spinto deliberatamente verso il limite ultimo della mia esperienza di stati psicologici estremi. Ma non posso farlo in ogni romanzo».
Nelle sue dieci regole per scrivere narrativa mi sembra che lei solleciti questa ricerca.
«Io dico un’altra cosa: la narrativa che non rappresenti un’avventura personale dell’autore in un territorio spaventoso e sconosciuto non merita di essere scritta se non per soldi. Ma questo non significa spingersi all’estremo. Si riferisce di più all’esigenza che ogni romanzo sia un’avventura, ossia risponda alla necessità di intraprendere una narrazione senza avere idea di come portarla a termine. Tutto il mio decalogo nasce da un’intenzione polemica e in questo caso avevo in mente quel genere di romanzo che dà l’impressione di essere stato scritto sulla base di uno schema prefissato. Mi accorgo quando uno scrittore sta rischiando per davvero, e non sta solo recitando».
Chi rischiava davvero era il suo amico David Foster Wallace, di cui ricorda una gita mancata sulle rive mefitiche di Salton Sea insieme a William Vollmann. Cosa rimpiange di più di quel sodalizio?
«Non parlerei di rimpianto, ma di tristezza. La tristezza di non poter più vivere delle avventure insieme a Dave. Posso dirle che i veri rimpianti che ho nella vita sono altri: con un certo livello di approssimazione sono almeno tre. Il primo è che non ho imparato a giocare a tennis da piccolo. Il secondo è che scelsi di non fare sesso con una certa persona in una certa città in un dato anno. E il terzo è che sono stato incauto nel rivelare le mie riserve sul fatto che Oprah Winfrey avesse selezionato Le correzioni per il suo Club dei Libri».
«Bisogna amare per poter essere implacabili». È la regola con cui chiude il suo decalogo letterario. Che cosa intende dire?
«Bisogna trovare una certa empatia con un personaggio prima di assoggettarlo a ogni sorta di gogna, e quindi prima di rivelarne senza ritegno ogni debolezza morale. Ed è una mia convinzione quasi mistica che uno scrittore renda un personaggio simpatico trovando il modo di innamorarsene. Credo che l’amore in questo modo diventi contagioso».
Posso farle una domanda più personale? Lei ha narrato come nessun altro delusioni, frustrazioni, catene delle relazioni famigliari. E in tutti i suoi romanzi — da "Le correzioni" a "Libertà" e a "Purity" — c’è un riflesso della sua famiglia di origine, in particolare di sua madre. Quanto il ricordo famigliare vincola tuttora la sua immaginazione? E pensa più spesso ai suoi genitori ora che sta per compiere sessant’anni?
«Indubbiamente una domanda personale! I miei genitori sono state le due persone più importanti della mia vita. Non smetto mai di pensarli, mi mancano ancora e continuo a sognarli in modo molto vivido. Li ho persi entrambi quando ero relativamente giovane, cosa che mi ha liberato come scrittore in modi anche significativi, ma il risultato è stato un arco di tempo stranamente lungo tra la loro morte e il momento in cui ho raggiunto l’età che avevano loro quando li ho conosciuti meglio. Il vero motivo per cui ho scritto Zona disagio, l’unico mio lavoro autobiografico, è perché desideravo fare i conti con loro, guardarli in modo più oggettivo, e perdonarli per colpe che all’epoca mi parevano enormi ma che adesso sembrano insignificanti. Ora sono consapevole di quanto mi abbiano dato senza chiedere mai nulla in cambio».
Ma il fatto di non aver messo su famiglia, pur vivendo con una compagna amata, è stato il frutto di una scelta o del caso?
«Può darsi che si sia trattato di un caso — mi sono innamorato di una donna che non voleva figli — ma a questo punto mi pare che sia stato inevitabile e giusto. È da tanti anni ormai che non ho più il rimpianto del figlio mancato. Forse sarebbe potuto essere un modo per ripagare il debito con i miei genitori. E forse sarei diventato una persona migliore di quel che sono: uno scrittore egocentrico e monomaniacale. Ma la scrittura avrebbe pagato un prezzo terribilmente alto».