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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Intervista a Oleg Caetani

Oleg Caetani è uno dei più grandi direttori d’orchestra della sua generazione. Spazia tra musica sinfonica e lirica, con amore particolare per Shostakovich. Ha un rapporto particolarmente stretto con l’Orchestra Verdi e l suo prossimo impegno è Woolf Works, con la musica di Max Richter, alla Scala dal 7 al 20 aprile.
Suo padre Igor Markevitch era un musicista russo, sua madre, da cui lei ha preso il cognome, un’aristocratica italiana.Quando ha scoperto la passione per la musica?
«Ho iniziato a 9 anni, non così presto per un musicista, ma a 13 ho deciso di diventare direttore d’orchestra, e in questo sono stato precoce. Sono stato fortunato ad avere grandi insegnanti come Franco Ferrara, un genio con un istinto pazzesco: a 18 anni era direttore del Maggio Musicale Fiorentino».
Perché è andato a studiare in Russia per tre anni?
«Perché lì livello degli studi musicali era più alto che in qualsiasi altra parte del mondo. Avevo vent’anni e mi sono innamorato di Mosca. Studiavo dieci materie diverse, incluse musicologia, storia dell’Urss, scienza del comunismo. Riderete, ma mi sentivo molto libero. A Pietroburgo ho avuto il miglior insegnante della mia vita, Ilya Mussin. Insegnava a Gergiev e Temirkanov, i migliori direttori russi contemporanei. Sono stato il primo italiano a ottenere un diploma in direzione».
Non era strano il comunismo per un aristocratico italiano?
«In Russia ero rimasto molto colpito dal sistema comunista, perché tutti potevano studiare e tutti avevano una possibilità. Poi sono andato in Germania, a Berlino Est come pianista in un teatro d’opera e ho cambiato idea. Avevo imparato in Urss che i tedeschi dell’Est erano amici, ma lì ho notato subito che odiavano i russi e non si consideravano liberi».
Perché è andato in Germania invece che in Italia?
«Non riuscivo a trovare lavoro in Italia. In Germania vinsi il concorso internazionale di Herbert von Karajan per direttori. Quello fu un grande incontro. Fantastico. Era un direttore immenso, straordinario sia nell’opera che nel concerto sinfonico, e contrariamente a quel che si dice era molto gentile e generoso. Ci dedicava il suo tempo».
Cosa ha imparato da lui?
«Tantissimo. Mi disse che se scegli un tempo devi tenerlo. Puoi rallentare o accelerare un po’, ma poi devi tornare a quel tempo per il movimento della sinfonia o per un’aria. L’altra cosa che gli devo è il concetto che un direttore d’orchestra è come un capitano, lavora con gli orchestrali ma non ne fa parte. Deve solo aiutare dove è necessario. Era famoso il suo esempio: raccontava di quando da giovane stava imparando a cavalcare. Era solito lavorare con il cavallo, finché non capì che il cavallo salta da solo, basta guidarlo». 
Dopo Berlino lei ha diretto a Weimar e Francoforte. C’era differenza tra la musica della Germania Est e dell’Ovest?
«Enorme. L’Est seguiva la vecchia tradizione tedesca, con un suono piuttosto cupo. All’Ovest l’influenza americana era più forte che in Italia o in Francia. Gli americani lavorano con grande collaborazione e senso di squadra, le orchestre sinfoniche sono tecnicamente incredibilmente buone ma poco creative. Poi ho deciso di diventare un freelance sono diventato direttore della Melbourne Symphony Orchestra, e da allora ho diretto molto in Asia, Giappone e Cina. Un pubblico straordinario, le prime orchestre giapponesi nacquero solo dopo la guerra e ora ci sono teatri ovunque. A Taipei è pieno di giovani e mi sento una popstar. A Taiwan mi chiedono autografi su registrazioni che non sapevo nemmeno di aver fatto! ».
Le piace dirigere in Italia?
«Sì. Le orchestre italiane sono le uniche in Europa occidentale ad avere un loro suono. E i musicisti sono entusiasti, molto forti, brillanti e hanno uno stile personale. Adesso ho il balletto Woolf Works alla Scala, ispirato ai romanzi e alla vita di Virginia Woolf. L’autore, il compositore tedesco Max Richter, si definisce post-minimalista, è cresciuto e ha studiato in Inghilterra. È un fan di Virginia Woolf. Per l’Italia, il bello di questa produzione è il ritorno della prima ballerina Alessandra Ferri». 
Ha vissuto da nomade, le piace?
«No, per niente. Sono conservatore, mi piace stare nello stesso posto. Ora la mia seconda moglie Susanna e io viviamo a Londra con nostra figlia. Le figlie del mio primo matrimonio vengono a Londra, che tutti noi adoriamo. È una città fantastica per la musica, e per il pop è davvero la capitale mondiale». 
In Italia la cultura è destinata a morire?
«In Italia la situazione è difficile perché il governo paga solo per la Scala e molto poco per gli altri, e meno comunque di quanto il governo inglese dia al Covent Garden. Gli altri riescono a sopravvivere, ma solo con gli sponsor. Io però sono ottimista e spero che la classica abbia futuro in Italia».
Compositore preferito?
«Due. Uno è Verdi e l’altro è Shostakovich, morto un anno prima che andassi in Urss, ma è parte di tutta la nostra storia musicale e significa molto per me. Verdi è così umano, è incredibile la sua evoluzione la prima opera sembra composta per la banda di Busseto e le ultime ricordano Debussy. Senti due battute e sai che è Verdi, è davvero universale».
(traduzione di Carla Reschia)