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 2019  marzo 31 Domenica calendario

APPUNTI SULLA BREXIT PER ANTEPRIMA

ADNKRONOS 31/3 –
La premier britannica Theresa May sta disperatamente cercando una via d’uscita dal caos in cui è precipitato il processo della Brexit, ma intanto cresce lo scontento fra i 314 deputati conservatori. Quasi la metà di loro, ben 170, ha firmato una lettera per respingere ogni ipotesi di estensione dell’articolo 50, anche se ciò significherà far scattare una Brexit senza accordo alla scadenza del 12 aprile, riferisce il tabloid The Sun. Il Times scrive intanto che due stretti consiglieri della May, Robbie Gibb e Stephen Parkinson, premono per la convocazione di elezioni anticipate. Ma il Guardian racconta che molti tories, fra cui membri del governo, si sono detti apertamente contrari, argomentando che ciò non farebbe che esacerbare la crisi sulla Brexit. Si attende intanto il dibatto di domani in parlamento dove sono previsti "voti indicativi" su possibili scelte alternative per la Brexit. Secondo la Bbc, l’ipotesi di unione doganale con la Ue potrebbe essere quella che raccoglierà più preferenze. 

Ha superato la soglia di sei milioni di firme la petizione che chiede al governo britannico la revoca dell’articolo 50 del trattato europeo di Lisbona, annullando così la Brexit. Lo ha reso noto il sito web del parlamento britannico, dove è stata presentata la petizione. Presentata mentre la Brexit è ormai precipitata nel caos, la raccolta di firme ha superato da tempo ogni record precedente sul sito di Westminster. Secondo il regolamento, le petizioni oltre le 100mila firme deve essere discusse. E così la revoca verrà discussa domani in aula nell’ambito dei voti indicativi previsti domani per cercare di trovare una via d’uscita all’impasse dopo la terza bocciatura in parlamento dell’accordo di divorzio fra Londra e Bruxelles. Il governo di Theresa May ha già preannunciato parere contrario. 

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ALESSANDRA RIZZO, LA STAMPA 31/3 –
«No deal? No problem!» Il cartello alla manifestazione per la Brexit di venerdì pomeriggio riassume ciò che molti pensano, tra quanti hanno votato per lasciare l’Unione Europea: esasperati dal pantano in cui si è cacciato il Paese, delusi da una classe politica che secondo loro li ha traditi, temono che la Brexit resti per sempre un miraggio, tra negoziati infiniti a Londra e Bruxelles. E allora vedono il «no deal», l’uscita senza accordo, come l’unica soluzione, sia quel che sia. Anche Theresa May sta cercando il modo di uscire dall’impasse, e probabilmente di allungare un po’ la sua permanenza a Downing Street, dopo che i Comuni hanno bocciato per la terza volta il suo piano per la Brexit. Imperterrita, la premier potrebbe riprovarci per la quarta volta, già nei prossimi giorni. Downing Street ha fatto sapere che May non ha ancora abbandonato la speranza di una ratifica parlamentare. 
La spinta per il no deal non viene solo dalla piazza. Esponenti del partito conservatore starebbero premendo per un divorzio senza accordo il 12 Aprile, il nuovo termine per la Brexit che sostituisce la data originale del 29 marzo. È quanto chiede una lettera firmata da circa 170 deputati Tory e consegnata alla premier, secondo il «Sun». I firmatari temono che un ulteriore rinvio finirebbe per tradire non solo il risultato del referendum del 2016 ma anche il loro manifesto elettorale.
Sono 34 i Conservatori che hanno bocciato l’accordo nel voto di venerdì. Tra i ribelli ci sono anche i cosiddetti «Spartani», un gruppo di ultrà euroscettici che osteggia una «soft Brexit» per timore che precluda a Londra la possibilità di stipulare accordi di libero scambio in giro per il mondo. Il deputato Mark Francois ha detto che preferirebbe mettersi «un fucile in bocca» che votare a favore dell’accordo. Steve Baker, suo compagno di partito e di fazione (lo European Research Group, che ha dispetto del nome di europeo ha ben poco), ha usato toni analoghi quando ha detto che resterà contrario al piano di May «fino al giorno in cui morirò». 
In realtà a volere il no deal è una esigua minoranza, nel Paese come in parlamento: troppi i rischi potenziali per l’economia, gli approvvigionamenti alimentari, le aziende e gli ospedali. Tanto che il governo ha previsto, in caso di crisi, lo spiegamento di tremila soldati. Alla Camera dei Comuni, che non riesce a esprimere una maggioranza su un qualsiasi piano di uscita, almeno sulla necessità di evitare il precipizio sono quasi tutti d’accordo.
Per molti dei manifestanti che si sono riuniti di fronte al parlamento nel giorno che avrebbe dovuto sancire il divorzio, la questione non è economica, o non solo. La Brexit è questione esistenziale, di appartenenza identitaria molto più del partito, che sia Tory o Labour. E dunque molti giurano di essere disposti a subire un danno economico in cambio della ritrovata libertà dalla odiosa Bruxelles. Sventolando bandiere «Union Jack», hanno denunciato la «morte della democrazia», con tanto di bara di cartone. All’ombra di Winston Churchill, la cui statua di bronzo osserva il parlamento, qualcuno ne ha invocato lo spirito: dopotutto è uno dei simboli dell’orgoglio nazionale. Molti si sono detti delusi e frustrati da una classe politica accusata di boicottare la Brexit. «Qui siamo in territorio nemico», ha detto loro Nigel Farage, il leader storico del referendum. «Vogliono che ci arrendiamo, vogliono che andiamo via, ma io sono più determinato che mai». 

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LA STAMPA 31/3 –
Il sì del parlamento
La premier Theresa May punta a far votare una quarta volta la Camera dei Comuni nella speranza di ottenere un sì all’accordo che ha fatto con Bruxelles. 
L’ala dura dei Tory
Una larga parte dei conservatori vuole invece arrivare ad un’uscita dall’Unione europea senza accordo il 12 aprile prossimo.
Gli «Spartani»
I «ribelli» temono che una «soft Brexit» impedirà al Regno Unito la possibilità di stipulare accordi di libero scambio in giro per il mondo.
I rischi
I cittadini europei nel Regno Unito diventerebbero extracomunitari e senza status giuridico. Tornerebbero i controlli alle frontiere per persone e merci. Anche i voli da e per il Regno Unito rischiano di saltare.

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NINO MATERI, IL GIORNALE 31/3 –
Al grido di «London is open!» i musei britannici scoprono e mettono in mostra la Brexit Art: il mondo dell’arte conferma così la sua vocazione rabdomantica nell’individuare le vene nascoste che danno linfa alla contemporaneità. 
Sul fronte creativo-sperimentale la capitale britannica rappresenta tradizionalmente un laboratorio privilegiato, figuriamoci adesso che il ciclone Brexit gli inglesi se lo sentono soffiare sotto il naso; roba forte, che rischia di fargli saltare le narici. 
Eppure mentre la gente scende in piazza con l’incubo di un’uscita al buio, il London Museum intercetta protesta e dibattito miscelandoli in una formula estetica che, in Italia, direttori, burocrati ministeriali e sovrintendenti non riuscirebbero a concepire neppure lontanamente. 
Secondo l’ultima ora Theresa May non si rassegna alla terza sconfitta di venerdì ai Comuni e sta preparando il quarto tentativo? 
Ecco la risposta artistica del London Museum: un bus a due piani zeppo di giovani artisti che vanno in giro per la city intervistando la gente sul caos-Brexit; le voci pro e contro diverranno poi parte integrante di videoinstallazioni con l’obiettivo di lasciare ai posteri traccia di un cruciale passaggio storico della vita del Paese. 
La dichiarazione di Laura Kuenssberg, editorialista della Bbc, sembra un «rumore» futurista: «È probabile che Theresa May ci voglia riprovare, ma è una decisione presa nel bunker mentre il cerchio del no deal si stringe»; parole che, se Marinetti rinascesse oggi in Inghilterra, sottoscriverebbe in un ipotetico «Nuovo Manifesto della Brexit». 
Intanto il Bristol Museum - per «celebrare» la Brexit - ha pensato di esporre nella sala d’onore Devolved Parliament (Involuzione del Parlamento), l’opera premonitrice più political-scimpanzè-scorrect di Banksy: ritrae scimpanzé seduti al posto dei deputati tra i banchi della Camera dei Comuni; un Parlamento completamente occupato da scimmie, non si sa bene se e più o meno intelligenti dei parlamentari umani. Il misterioso street artist la realizzò dieci anni fa, ma oggi il quadro è di un’attualità bestiale. Devolved Parliament fu esposto per la prima volta nel museo di Bristol durante la mostra del 2009, un evento che attirò oltre 300mila persone. Il dipinto è la più grande opera dell’artista su tela e ora è visibile grazie a un prestito del suo proprietario.
L’altroieri, 29 marzo, nel giorno in cui il Regno Unito sarebbe dovuto uscire dall’Unione Europea, la factory di Banksy ha postato l’immagine dell’opera su Instagram col seguente slogano: «Ridi ora, ma un giorno nessuno sarà responsabile»: frase che riprende e modifica un cartello che compare in un’altra delle sue opere più famose, che ha sempre con protagonista un primate: «Ridete ora ma un giorno saremo noi al comando». 
Uno scimpanzè libero al posto dell’ingabbiatissima Theresa? Mai dire May.