Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019
Lingue impossibili
La scoperta del funzionamento del corpo umano è stata guidata essenzialmente da misure quantitative. Per sapere come funziona un organo si somministrano stimoli adatti e si misura l’effetto che hanno sull’organo, sul suo metabolismo, sulla sua struttura in generale. Per studiare il pancreas, per esempio, si può vedere cosa accade se si beve un bicchiere di acqua zuccherata oppure se si mangia un uovo o addirittura si inghiotte della plastica.
Ma come si esplora il cervello? Certamente ci possono essere delle tecniche quantitative: si può modulare l’intensità di un suono o della luce, oppure far provare spavento o gioia ma il cuore del cervello non si apre con queste tecniche, perché il cuore del cervello, quello umano, è il linguaggio e gli stimoli linguistici poco si prestano a dati quantitativi. Certamente, ce ne sono: ad esempio, si può vedere cosa accade se si fanno memorizzare frasi brevi o frasi lunghe, oppure se si passa da una lingua nota ad una sconosciuta, ma la struttura del codice, quella che lo rende unico tra tutti gli animali non può essere analizzata in modi puramente quantitativi.
Per capirlo basta riflettere sulla nozione di «frase» e chiedersi cosa sia. Come spesso accade nelle scienze, a fronte di una sensazione immediata di semplicità nasce la consapevolezza di una complessità così grande da rendere la nozione (quasi) del tutto inafferrabile: cos’è una frase? La definizione che ci viene in mente più naturale – una sequenza di parole dotata di senso – è troppo poco selettiva perché include sequenze come la descrizione di Manzoni della peste, che non è certo una frase anche se è certamente dotata di senso.
Eppure, non poter indagare la diversa reazione del cervello quando si ascoltano sequenze di parole rispetto a quando si ascoltano frasi vuol dire fermarsi ben al di qua della comprensione di quest’organo, come se non potessimo nemmeno far vedere un bicchiere di bevanda zuccherata ad una persona per capire come funziona il pancreas. Sorprendentemente, la linguistica contemporanea non è ancora riuscita a trovare una definizione esauriente e definitiva di frase, malgrado gli enormi progressi rispetto al passato. Ciò che stupisce è che la definizione più comune ed accettata è ancora quella di Aristotele, pur parziale, per il quale una frase è una sequenza di parole delle quali si può dire se ciò che descrivono è vero o falso: dunque, Man zoni descrisse la peste è una frase mentre la descrizione di Manzoni della peste non lo è. Il neuroscienziato che indaga il cervello si trova dunque tra gli elementi che deve prendere in considerazione per creare gli stimoli adatti la delicatissima, filosoficissima nozione di «verità».
La conclusione è chiara: le neuroscienze, quando si occupano dell’uomo in modo specifico, cioè quando si occupano di struttura del linguaggio, non possono fare a meno di utilizzare nozioni che non hanno nulla di quantitativo. Dico «struttura del linguaggio» e non semplicemente linguaggio perché qui non si tratta di comunicazione – tutti gli animali comunicano – ma di funzionamento e architettura del codice utilizzato; siamo gli unici esseri viventi in grado di costruire un numero potenzialmente infinito di significati semplicemente permutando l’ordine di un numero finito di elementi: sia che si tratti di pochi suoni per costruire le parole, sia che si tratti di parole per costruire le frasi. È proprio questa l’impronta digitale del cervello umano.
Ma anche la filosofia non basta quando si tratta di d’indagare la relazione tra cervello e linguaggio: il livello di complessità è troppo elevato (per ora) perché si possano abbinare l’organizzazione biologica con quella formale delle regole del linguaggio a partire dagli elementi primitivi dei due sistemi fino alle strutture generali che li coordinano. Esiste, tuttavia, un’alternativa che pone una sfida metodologica importante rispetto ai canoni del metodo scientifico: si tratta di provare a capire come funziona ciò che è possibile, osservando la reazione alla costruzione di ciò che appare come impossibile.
Questa vera e propria inversione di rotta metodologica ha dato frutti inaspettati. Sia che si tratti di progettare regole impossibili, cioè regole che non si trovano in nessuna lingua del mondo, sia che si tratti di parole inventate, cioè parole che potrebbero essere le parole di una lingua ma non lo sono: il motore della scoperta diventa dunque la fantasia, l’immaginazione di ciò che non esiste.
E così, scoprire cosa si attiva nel cervello quando si legge che il gulco gianigeva le brale o che nafantavano gli oprammi o che tutte le pitanghe sono state gasporate ci aiuta in modo imprevisto a decifrare l’impasto di cui è fatta una frase.
E con le regole impossibili il risultato è stato ancora più sorprendente perché si è scoperto che queste regole non sono impossibili per convenzione ma perché il nostro cervello non riesce a “digerirle”, proprio come capita al pancreas quando si inghiotte la plastica. E non si tratta di regole particolarmente difficili, anzi: ad esempio, una regola che prescrivesse che la negazione non fosse sempre la seconda parola di ogni frase come capita in Maria non vola, sarebbe rifiutata dalle reti neurobiologiche che normalmente governano il linguaggio umano.
Nelle neuroscienze, allora, la posta in gioco si alza, perché quello che si sta capendo del funzionamento del cervello non può non interessare anche chi sta progettando la creazione di lingue artificiali, che sono uno dei punti cardine della tecnologia e della robotica del futuro.
Ma cosa succederebbe agli esseri umani se venisse fatta loro apprendere una lingua tecnologicamente semplice ma impossibile? Non è facile rispondere ed in fondo questa domanda è una domanda antica. Ho provato a giocare ancora di fantasia e immaginarmi la risposta più probabile, in un romanzo nel quale un’organizzazione segreta, riesumando un progetto sepolto nei secoli, cerca di far apprendere una lingua artificiale impossibile con dei risultati devastanti sui bambini. Per ora, i nostri bambini, noi siamo al sicuro e il linguaggio umano non si lascia deteriorare. In questo caso, la fantasia, si spera proprio che non predica nulla.