Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019
Quando Rousseau erudiva i cinesi
Jean-Jacques Rousseau ebbe cinque figli da una lavandaia, Marie-Thérèse Levasseur. Li fece ricoverare all’orfanotrofio. Era convinto che lì sarebbero stati educati meglio. La sua amicizia con Hume terminò dopo un forte litigio. Con Voltaire, guai a volontà. I due philosophes non perdevano occasione per bisticciare. E quando Rousseau inviò al patriarche dell’Illuminismo il Discours sur l’inégalité, questi il 30 agosto 1755 lo ringraziò con una lettera in cui gli assicurava che non era mai stato usato così tanto spirito per renderci bestie. È bene rileggerla in originale: «J’ai reçu, monsieur, votre nouveau livre contre le genre humain… On n’a jamais tant employé d’esprit à vouloir nous rendre bêtes». Sovente Voltaire lo qualificava con l’epiteto di cretino, ma anche con termini peggiori, come prova una copia de Il contratto sociale di Rousseau da lui annotata in margine e conservata a San Pietroburgo in uno spazio dedicato al patriarche della biblioteca Saltykov-Š?edrin.
Ma queste, come si suol dire, sono scaramucce che fanno parte della filosofia. Quel che conta è la fortuna incontrata da Il contratto sociale, un’opera che in un primo tempo poté introdursi in Francia solo di contrabbando e che nel volgere di pochi anni eserciterà una notevole influenza: si va dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America a Kant, da Fichte al giovane Marx, il quale ne ricava idee per lo scritto del 1843 (pubblicato postumo) noto con il titolo Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Interesserà ai rivoluzionari francesi, e non soltanto: le idee in essa contenute saranno utilizzate anche dagli ideologi nazisti. Basta rileggere le polemiche contro il Trattato di Versailles, per esempio quelle apparse dopo il 1933 sulla rivista Völkerbund und Völkerrecht, e ci si accorge che i dotti giuristi che vi collaboravano ricorsero – senza citare Rousseau – al principio scritto ne Il contratto sociale: il fatto non fonda il diritto. Del resto, la condanna del mondo liberale era cominciata con Benjamin Constant, il quale accusò Rousseau di aver offerto con tale libro «il più terribile ausiliario d’ogni genere di dispotismo» (Principi di politica, 1815).
Inutile continuare con un elenco infinito di pro e contro o di personaggi che hanno abbracciato le sue idee, basterà ricordare che Rousseau trova adepti anche in Giappone. Anzi, nell’impero del Sol Levante Nakae Chômin (1847-1901), filosofo politico e giornalista, ne diffonde il pensiero e nel 1874 traduce Il contratto sociale in giapponese (si ferma al sesto capitolo del libro II); poi, nel 1882-83, anche in cinese. Le pagine di Rousseau ispireranno dopo il 1880 i movimenti che chiedevano, a Tokio e nelle città dell’arcipelago, una costituzione e il riconoscimento di libertà fondamentali. Sorte analoga l’opera avrà in Cina nel 1898 durante la cosiddetta Riforma dei Cento Giorni, alimentata da Kang Youwei e dai suoi seguaci, stroncata il 21 settembre di quell’anno da un colpo di Stato condotto dall’imperatrice madre Cixi.
Les Belles Lettres, nella Bibliothèque chinoise, a cura di Eddy Dufourmont e Jacques Joly, propongono con testo a fronte “Il contratto sociale” cinese (in nota quello del 1874) e alcuni scritti su Rousseau di Nakae Chômin. Tra questi, vi sono articoli sull’interesse pubblico e privato o sulla dichiarazione dei diritti del popolo francese del 1793 o una sintesi delle teorie politiche di Rousseau.
Difficile aggiungere altro. Forse soltanto che la sinistra si è un po’ dimenticata di questo filosofo, e che la politica italiana ora ne parla riferendosi soprattutto a una piattaforma informatica.