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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Storie di bottoni d’artista

Indossava un abito grigio, quasi volesse mimetizzarsi tra i colori delle strade, dei muri e delle lamiere che riparavano i banconi del mercato. Nel 1777 Giuseppe II passeggiava per  Les Halles, nel cuore di Parigi, e avrebbe preferito restare in incognito, senonché una pescivendola lo aveva riconosciuto e, sorpresa da quella modestia borghese, aveva esclamato: «Beato il popolo che paga per i vostri bottoni». 
Beato il popolo che non ha un re come Luigi XIV, pronto a spendere nell’acquisto dei bottoni più rari il corrispettivo di cinquecentomila euro l’anno, per un totale di cinque milioni di euro nel corso del suo regno. E beato il popolo che non conosce i costi altissimi di un boutonnier personale, assunto da Luigi XV e incaricato di tenere in ordine i bottoni di Sua Maestà. 
Non bottoni come i nostri, naturalmente, banali dischetti di plastica, ma piccole e straordinarie opere d’arte dal diametro massimo di quattro centimetri, che splendevano sul bordo di redingote e panciotti quasi fossero in un museo, e che Loïc Allio, qualche secolo dopo, ha cominciato a raccogliere, trasformando quelle miniature dipinte su avorio, quelle incisioni finissime montate su una base di metallo e protette da un vetro in una collezione unica al mondo, perché del mondo e della sua storia era ed è il minuscolo specchio.
Di questo racconta il libro Le bouton au fil du temps, che Allio ha appena pubblicato e per il quale ha chiesto a Catherine Deneuve una breve introduzione. E nonostante l’attrice gli abbia offerto un bottone di alta moda anni ’40, un tondo nero e al centro un cupido d’oro per ricordare come, aperto o chiuso, quest’accessorio parli sempre d’amore, Loïc ha preferito partire da un’epoca in cui i bottoni erano qualcosa di più di una barricata a protezione di un corpo meraviglioso. Un bottone sbagliato, e durante la Rivoluzione si finiva ghigliottinati. Un bottone prezioso che una madre antiquaria regala al figlio perché possa comprarsi tele e colori, e Loïc, bretone, negli anni ’70 trentenne, cambia vita, abbandona la pittura e scopre che i bottoni più antichi, di conchiglia bianca, risalgono al 3000 a.C. e sono uno dei tesori della Valle dell’Indo, a trecento chilometri da Karachi.
Per l’età dell’oro, gli ultimi due decenni del XVIII secolo, bisogna invece tornare sciovinisticamente in Francia. E sempre in Francia è ambientato il romanzo che Louis Pergaud ha scritto nel 1912, La guerra dei bottoni, e che Allio ha letto da bambino, e ancora oggi si ricorda l’immensa pena per quei coetanei che, avendo perso una delle tante battaglie di strada, venivano privati dei bottoni, strappati con violenza dai vincitori, e tenendosi i pantaloni per mano tornavano a casa.
Un oggetto così potente da assicurare rispetto e far morire di vergogna meritava di essere collezionato. Inizia la caccia. Loïc sa di non essere solo. Collezionava bottoni Francesco I, che nel 1520, in vista di un incontro con Enrico VII d’Inghilterra, si fece cucire sull’abito di velluto nero che avrebbe indossato per l’occasione 13.400 bottoni, creati appositamente dal suo gioielliere. Collezionava bottoni Carlo X, che aveva la passione per un modello a forma e funzione di orologio. E più tardi collezionava bottoni delle uniformi militari francesi Charles de Gaulle. E collezionista raffinata era anche Jacqueline Kennedy, che prediligeva i bottoni di smalto francesi. Allio segue i suoi passi e trova un bottone che riproduce il mito di Orfeo ed Euridice, un altro, anzi più d’uno, che ritraggono l’intera genealogia dei reali di Francia e i monumenti di Parigi, tema a cui Maria Antonietta dedicò una serie completa di bottoni che dipinse personalmente e regalò al Duca de la Rochefoucauld, grand-maitre del guardaroba di Luigi XVI (e per inciso Giuseppe II era venuto a Parigi per verificare, appunto, le spese folli della sorella).
Qualche viaggio e Loïc si imbatte nei bottoni à la Buffon, dal nome del famoso naturalista, che verso il 1760 ispira la creazione di minuscole capsule di vetro, nelle quali conservare una farfalla, una conchiglia, un piccolo erbario. Più tardi – e nell’Enciclopedia Diderot e D’Alambert avevano già scritto di «bottoni che variano al di là dell’immaginazione» – appaiono a Versailles alcuni esemplari ispirati ai quadri di François Boucher, piccoli Ermes danzanti su una giacca da uomo. Si danza ancora alla corte di Luigi XVI, fino a quando appaiono le prime nubi. Insieme alla tempesta che si sta avvicinando appaiono altri bottoni, quello per il figlio del re, Luigi Giuseppe, morto a dieci anni nel 1789, e nel cerchio di tela nera splende un delfino d’argento e le lacrime di cordoglio sono minuscole gocce di vetro. Pochi mesi, e i rivoluzionari mostreranno con disinvoltura il bottone che riproduce il palazzo di Versailles in fiamme, e Chateaubriand porterà nel suo viaggio in America nel 1791 un altro bottone famoso, di madreperla, su cui ha inciso il motto Potius mori quam foedari, meglio morire che disonorare. Di spirito rivoluzionario, memoria di un nonno esiliato a Guernsey, vive anche François Hugo, ultimo nipote di Victor, che tra il 1938 e il 1954 crea più di milleseicento modelli di bottoni per Worth, Dior, Balmain, Fath, Rochas e Lelong.
Dopo quasi un secolo di bottoni a lutto, neri di banalità nel richiamo all’ordine di inizio Ottocento, e dopo qualche eccesso fotografico, vedi un nudo di vera odalisca riprodotto su porcellana e cucito discretamente all’interno di un cappotto maschile, tornano le creazioni più smaglianti, ricche, fantasiose. Maurice de Vlaminck disegna bottoni per Paul Poiret e Alberto Giacometti per Elsa Schiaparelli. Poi arriva la guerra, la seconda, e di nuovo i bottoni sono la voce silenziosa di chi li mostra con orgoglio. Jean Clément, virtuoso del mestiere, crea un modello di ceramica, una mano che stringe un uccellino tra le dita, così come la Francia stretta nella morsa dell’occupazione. Altri tempi. Ci si chiede cosa possa mai comunicare oggi, se non un bisogno impellente, la razionale, fredda e velocissima cerniera lampo.