Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2019
Biografia di Nino Lo Bianco raccontata da lui medesimo
Strabuzza gli occhi Nino Lo Bianco alla domanda. Ma non gli pare un’impertinenza, non è quello il punto. È che proprio la curiosità sull’età gli appare un fuor d’opera. Facciamo 80? «L’hai detto tu».
Un vezzo. Se lo concede sorridendo il presidente di Bip – Business Integration Partners, società specializzata in consulenza di direzione e innovazione con oltre 2.300 dipendenti, di cui più del 70% under 35 e un giro d’affari pari a oltre 205 milioni nel 2018. Una realtà nata nel 2003 che ora ha quattro sedi in Italia, la principale a Milano, e filiali in 11 Paesi, fra cui Uk (qui si chiama Anagram), Spagna, Turchia, Brasile, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Emirati Arabi, Cile e Colombia. Lo Bianco divide questa esperienza con i due amministratori delegati, Carlo Capè e Fabio Troiani. E Bip in questi anni è cresciuta, molto, con un +15,3% di media annua fra 2009 e 2016 che si confronta con il +2,3% del settore del management consulting. La crescita di Bip in questi anni è stata organica, ma anche per acquisizioni. E a questa dinamica ha contribuito l’ingresso del fondo di private equity franco-svizzero Argos Soditic che ha acquisito nel 2014, insieme a dodici manager della società, la quota di controllo di Bip. Da allora, la valutazione è aumentata di gran lunga, fino ad arrivare a 200 milioni, quando a marzo 2018 è stato il fondo di private equity Apax Partners a rilevarne la maggioranza.
«Se mi guardo indietro vedo che con Bip è stata creata una storia di successo. Tutta italiana». Ma se si guarda indietro – Lo Bianco lo sa e per questo il suo vezzo legato al celare l’età lo accompagna con il sorriso – c’è una storia, la sua, che si sovrappone a quella dell’evoluzione, o involuzione a seconda dei punti di osservazione, del sistema economico di un Paese che negli ultimi 60 anni è passato dall’industria dominata dalle grandi famiglie, all’economia post-pubblica al nanocapitalismo, per affacciarsi ora alle possibilità del terziario avanzato «che è la vera opportunità per il futuro. La svolta non può che venire da lì, tanto più in un Paese come il nostro dove l’incontro fra digitale e sistema manifatturiero che è il secondo in Europa, dopo la Germania, può veramente permettere di porre basi per lo sviluppo».
Parlare di futuro con Nino Lo Bianco viene naturale. Il discorso va a finire sempre lì, nelle opportunità offerte da questo o quel settore e da questo o quel mercato. Ma fra discorsi sui giovani che si affacciano al mondo della consulenza strategica, skills necessari, possibilità offerte da questo mondo e cenni sull’attività di Bip, nel paio d’ore di conversazione finiscono per affiorare anche tanti ricordi. Storie di una vita trascorsa facendo un lavoro che oggi può essere chiaro a tutti nei suoi tratti di base. Ma non era così una sessantina d’anni fa, quando Lo Bianco ha iniziato a muovere i primi passi in questo ambito. «Ricordo ancora le domande di mia madre. Mi diceva: “Nino, ma tu di che ti occupi?”. E io le rispondevo: “Mamma, io sono come il medico. E i miei pazienti sono le aziende”».
Era un’altra Italia. Un Paese che Lo Bianco ha potuto vivere dai suoi estremi: la Torino della Fabbrica-Stato Fiat e la Sicilia delle enormi differenze di classe e della nobiltà di stampo gattopardesco. Nella prima Lo Bianco è nato, da genitori siciliani con il padre Antonino che si era trasferito in Piemonte per lavorare alla Banca Popolare Piemontese. «Fu la mia fortuna» è la valutazione riportata in un libro del 2009: Volevo fare il consulente. Mezzo secolo di capitalismo italiano visto da dentro (Gruppo 24 Ore). La scuola torinese diede un’impronta, «con la religione delle regole, l’etica del lavoro, il senso del dovere, il rispetto per lo Stato e la Pubblica amministrazione». L’attrazione fatale del Sud non tardò tuttavia a manifestarsi nel capofamiglia che decise di tornare a Palermo, complici alcune norme dello Statuto dell’isola pensate per attrarre capitali. «Mio padre partecipò così al concorso per agente di cambio, in occasione dell’istituzione a Palermo della Borsa Valori».
Un impatto, quello con la Sicilia, che Lo Bianco definisce «uno shock». Alla domanda su che lavoro facessero i genitori dei suoi compagni del Liceo Gonzaga di Palermo, «la risposta era in genere “niente”. I nobili padri dei miei amici sembravano fatti con lo stampino: eleganti, spiritosi, ignoranti». Quella Sicilia però era terra di grandi contraddizioni. Sull’isola era ad esempio operativa l’Isida: centro d’eccellenza per la formazione di imprenditori e dirigenti d’azienda. «Mimì La Cavera, leader dei liberali in Sicilia che conoscevo personalmente, avendo io iniziato a fare attività politica, e che era presidente della Sofis, una sorta di Iri in versione siciliana, mi offrì un posto di prestigio in una società del gruppo. Con la sola laurea in giurisprudenza non mi sentivo pronto. E lui mi spinse a frequentare l’Isida».
Terminato il master il bivio: lavorare all’Olivetti o rimanere all’Isida entrando nel corpo docente. Nel primo caso lo stipendio era doppio. «Ma io non volevo stare in azienda. L’idea di essere un dipendente inquadrato in una rigida gerarchia aziendale non mi piaceva». Animal spirit, si dirà, per una scelta possibile (e forse è vero) in altri tempi: più dinamici e in cui le incertezze del futuro lasciavano molto più spazio alla speranza. Ma non una scelta di comodo, arrivata dopo lunghe discussioni con il padre che voleva in realtà vedere il figlio seguire il proprio cammino come agente di cambio. Nino Lo Bianco supererà anche il concorso per accedere all’Albo. «Mio padre mi diceva che la “lobby” degli agenti di cambio non sarebbe mai stata cancellata. Io gli rispondevo che era un mestiere senza futuro». Aveva ragione il figlio.
«In quegli anni all’Isida ebbi la possibilità di conoscere quadri che sarebbero stati assunti dalle grandi aziende come Olivetti, Eni, Ibm, Rinascente». A questo si aggiungeva tutta un’attività internazionale: «A Fontainebleu ricevetti un incarico di visiting professor. E poi lezioni a Manchester, Barcellona». A un certo punto a Nino Lo Bianco inizia però ad apparire chiaro come la Sicilia non fosse terra d’elezione per lo sviluppo di un sistema imprenditoriale a prova di futuro. «C’era anche un problema onestamente non da poco a quei tempi. L’attività portava a trascorrere lunghi periodi fuori casa. Nel ’69 passai più di duecento giorni fuori casa. Viaggiare non era così comodo come oggi. E muoversi dalla Sicilia men che meno. Così con mia moglie, mia straordinaria compagna di vita a cui resto fedele da 54 anni e che paziente mi ha accompagnato in tutto questo tempo, abbiamo deciso di trasferirci a Milano. Decisione che mi ha permesso di restare fedele anche alla mia professione».
Attenzione. Tutto questo Nino Lo Bianco lo dice premettendo che la sua non è una storia da libro Cuore: «Non sono partito con la valigia di cartone e sia in Piemonte, sia in Sicilia, ho sempre vissuto una vita di sostanziale benessere». La Sicilia è comunque rimasta nel cuore. «Ogni estate torno. E incontro anche tanti ragazzi che vengono a chiedermi consiglio. Spesso mi sento dire: “Non ci sono soldi”. In questi casi sono tranchant e dico che ci sono fiumi di denaro in circolazione, se si hanno le idee giuste».
A Milano gli inizi sono con la Gea, che si occupava di piccole e medie aziende. Per la società a un certo punto si presenta l’opportunità di lavorare con la Fiat, scartata però trattandosi di un grande gruppo industriale. In disaccordo su questa scelta Lo Bianco lascia la Gea nel ’73. «Sembra facile. Ma avevo lasciato un porto sicuro». Intanto in quegli anni la docenza alla scuola di Marentino, di estrazione Fiat, aveva portato Lo Bianco a conoscere Giorgio Fardin e Marco Raimondi «che furono i miei compagni di viaggio nella società “Telos”, che costituimmo». Iri, Finmeccanica, Finsider, Fiat, Montedison. Clienti tanti. E Telos si impone nella sua specialità: il controllo di gestione.
Non che fossero tempi facili. I consulenti erano considerati costi inutili da tutta una generazione di imprenditori e manager sia nelle organizzazioni complesse come la Fiat ai tempi di Vittorio Valletta, sia nelle aziende di famiglia. «Il controllo di gestione era quasi sempre fatto un tanto al chilo. Ricordo ancora quando un produttore di biscotti stava per svenire quando gli dimostrai che più produceva quel prodotto che riteneva di punta e più perdeva». Successivamente, dato il successo di crescita in Italia, Telos fu acquisita – a caro prezzo – da Deloitte Consulting Italia. «Lo facemmo per approfittare del brand internazionale». Poi da quella Deloitte un gruppo di manager decide di uscire e si arriva all’avventura Bip – Business Integration Partners. In mezzo, anni a sporcarsi le mani «perché noi non facevamo schemi, ma contribuivamo alla trasformazione delle aziende. Come consulente ho collaborato a posare la prima pietra su cui è sorta Telecom Italia con la fusione tra Sip, Italcable e Telespazio». Lo Bianco ha poi lavorato con Ernesto Pascale per la privatizzazione dell’incumbent telefonico e ha partecipato allo sviluppo di Open Fiber. E in particolare su Telecom spiega: «Spero che il nuovo management, certamente più competente e conoscitore del settore, possa invertire sostanzialmente il trend di perdita di competitività che ha contraddistinto Telecom in questi anni. Ci sono certamente le premesse per recuperare un ruolo da player importante, anche se la leadership del passato è difficilmente ipotizzabile».
«Un tempo i consulenti in Italia si contavano sulle dita di una mano. C’era Pietro Gennaro per la strategia, Ambrosetti per la formazione, Galgano per la qualità, Lo Bianco per il controllo di gestione». Ora sul mercato imperano «i brand internazionali». È in questo quadro che Lo Bianco rivendica con orgoglio di aver contribuito a creare «una società italiana in grado di giocare la sua partita anche sui mercati internazionali». Una società che nell’ultimo anno ha assunto 1.000 persone perdendone «300 perché il turnover è alto in realtà dove si ha a che fare con giovani validi». Che Bip recluta con un occhio non solo ai laureati in Economia. «Nei nostri bootcamp abbiamo valutato e assunto anche geologi». È una conferma del valore dato al pensiero laterale in una professione «che non ha orari. Ma che dà tanto e che a me ad esempio ha permesso di vivere da vicino cambiamenti e trasformazioni del Paese e del mondo imprenditoriale». E ora? «Queste cose le vivo dalla mia posizione di decano dei consulenti italiani. E lunedì alle 9 sono in ufficio. Come sempre».