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 2019  marzo 31 Domenica calendario

Auto elettrica, lo scontro è Germania-Cina

Nei giorni caldi del dieselgate, psicodramma nazionale oltre che storia di truffa e disonestà tecnologica e intellettuale, il settimanale “Spiegel” fu impietoso nei confronti dell’allora classe dirigente di Volkswagen responsabile dello scandalo: «Una Corea del Nord senza i campi di lavoro». Così scrisse per sintetizzare l’assolutismo gerarchico e il deficit democratico imposti da Martin Winterkorn e Ferdinand Piëch, ai tempi (2015) rispettivamente Ceo e presidente del Consiglio di vigilanza, alla catena di comando del gruppo di Wolfsburg.
Lo scandalo non è ancora del tutto alle spalle ed è costato finora 27 miliardi di euro. Il suo fardello però è stato ben gestito e si è notevolmente alleggerito, tanto da permettere alla società di nutrire fondate ambizioni sul primato dell’auto del futuro – quella elettrica – e una competizione feroce che si giocherà nel breve arco industriale dei prossimi dieci anni soprattutto con i produttori asiatici.
Entro il 2028, ha promesso nei giorni scorsi il nuovo Ceo Herbert Diess presentando il bilancio 2018 e i piani di sviluppo, il gruppo (12 marchi, 122 fabbriche e 660mila dipendenti in tutto il mondo) avrà sul mercato 70 modelli alimentati da batterie a ioni di litio. Venti modelli in più rispetto al piano precedente per centrare due anni dopo un obiettivo ambizioso: l’auto elettrica dovrà generare il 40% del fatturato da vendite.
Dieselgate alle spalle? 
L’ambizione è nutrita da un grande piano di investimenti, 46 miliardi di euro per l’intero gruppo nel prossimo triennio, di cui 30 solo per il marchio Vw e le sue controllate: «La nuova squadra di dirigenti del gruppo è finalmente quella giusta – dice il professor Ferdinand Dudenhöffer, docente di gestione aziendale ed economia dell’industria automobilistica dell’Università di Duisburg-Essen -. Hanno saputo prendere la giusta velocità e sono consapevoli della sfida che li attende sulla mobilità elettrica. Nulla o quasi a che vedere con il management del recente passato, compromesso con il dieselgate e ancora impregnato di una cultura ingegneristica e gestionale legata al motore a combusione interna».
Volkswagen, però, non è una casa automobilistica come le altre, ma un crocevia societario di interessi economici e politici forse unico in Europa. È in questo il corrispettivo aziendale dell’economia sociale di mercato, il modello renano che corre sulle quattro ruote la gara della globalizzazione senza voler rinunciare ad alcune prerogative tradizionali, a cominciare dalla coesione tra datore di lavoro, dipendenti e un sindacato che cogestisce. 
L’incognita del sindacato 
Tutto a Wolfsburg si gioca nelle sale del Consiglio di Vigilanza, nell’elegante torre in mattoni rossi degli anni 50 al centro del complesso automobilistico più grande del mondo, voluto da Hitler, assieme alla città, per costruire l’auto del popolo progettata dall’ingegner Ferdinand Porsche. Nonostante gli eredi di Ferdinand (le famiglie Piëch e Porsche, appunto, non sempre in armonia tra loro) controllino il gruppo con il 52,2% dei diritti di voto attraverso la Porsche Automobil Holding SE di Stoccarda, una volta seduti sulle poltrone del Supervisory Board, la conta finale sulle scelte strategiche può risultare ben diversa.
Perché metà di queste venti poltrone sono occupate da rappresentanti dei lavoratori, altre due da rappresentanti del Land della Bassa Sassonia, detentore del 20% dei diritti di voto, e il resto dagli altri azionisti, compresa la holding del Qatar (17%). Non è dunque raro che tra Bassa Sassonia e sindacato si crei un asse in grado di bloccare piani di ristrutturazione che abbiano un impatto troppo pesante sui livelli occupazionali delle fabbriche in Germania, dove lavorano circa 110mila persone. Ed è quello che potrebbe succedere prossimamente dopo il recente annuncio, da parte dello stesso Diess, di 7.700 tagli occupazionali in aggiunta ai 30mila concordati in un piano precedente attraverso prepensionamenti e parziale blocco del turnover in alcune funzioni.
Questo annuncio, assieme alla ventilata possibilità di destinare alla produzione delle auto elettriche anche un impianto low cost in Europa dell’Est o Turchia, oltre a quelli tedeschi di Zwickau, Emden e Hannover, pare abbiano innervosito il potente capo del consiglio dei lavoratori, Bernd Osterloh. Nei giorni scorsi c’è stata un’assemblea generale piuttosto tesa, ma è anche vero che il sindacato, in questo caso IG Metall, negli ultimi decenni alla fine ha sempre mostrato una buona dose di pragmatismo.
«Non vogliamo certo impedire lo sviluppo dell’azienda, non l’abbiamo mai fatto – racconta Francescantonio Garippo, storico componente del consiglio di fabbrica, in Vw da 35 anni, uno dei tantissimi italiani che hanno contribuito al successo della casa automobilistica e che da decenni vivono e lavorano a Wolfsburg -. Ricordiamo soltanto che nel 2016, con la firma del ’Patto per il futuro’, il gruppo si è impegnato a non procedere con licenziamenti per ristrutturazione aziendale fino al 2025. Poi possiamo discutere sul resto, ma dobbiamo stare attenti anche a valutare bene quale potrà essere lo sbocco reale, sul mercato, dell’auto elettrica. Se a tanto sforzo tecnologico e finanziario e alla richiesta di sacrifici sul personale corrisponderà alla fine un’adeguata domanda, sostenuta inoltre da infrastrutture che non potranno essere completamente a carico del produttore».
A differenza del passato più o meno recente, però, il problema degli organici rischia di essere strutturale con il passaggio all’auto elettrica, e non più congiunturale, anche perché il marchio Volkswagen continua a soffrire di bassa redditività, con un margine che al 4,5% è circa la metà di quello di Audi. Come notano gli esperti, basta sollevare il cofano per rendersi conto che questa nuova tipologia di veicoli abbia bisogno del 20-30% di manodopera diretta in meno. E i tempi dettati dal nuovo management sono incalzanti. Dopo e-Tron da parte di Audi arriverà la Porsche con Taycan e Seat con el-Born. «Questa non è una crisi, che in passato abbiamo affrontato e risolto più volte – ammette Garippo -, è una rivoluzione industriale». 
La sfida è in Cina e con la Cina 
La vera onda d’urto di questa rivoluzione, però, arriverà l’anno prossimo con l’ingresso sul mercato della gamma ID, considerata la terza grande sfida del marchio Volkswagen dopo il Maggiolino e la Golf, declinata sotto forma di belina, suv, crossover e van. Sarà allora che la casa tedesca entrerà nell’arena della produzione e vendita di massa della e-mobility. ID è una famiglia costruita sul pianale elettrico Meb(Modularer Elektrifizierungsbaukasten) la cui modularità e flessibilità lo renderà sfruttabile per almeno una cinquantina di modelli diversi.
L’invenzione del Meb, il numero dei marchi, una notevole capacità finanziaria, la posizione di assoluto rilievo del gruppo in Cina, dove ha una quota del 18,5% e dove il mercato dell’auto elettrica cresce più rapidamente che in Europa e negli Stati Uniti, certificano il grande vantaggio competitivo del gruppo: la capacità di generare grandi economie di scala. «Questo permette di concentrare i nostri sforzi nell’innovazione e di accelerare il ritmo di produzione e ingresso sul mercato – spiega un alto dirigente del gruppo -. Abbiamo la giusta velocità di crociera e in questa fase non possiamo distrarci con acquisizioni importanti: sono operazioni sofferte e l’integrazione richiede tempi lunghi». L’alleanza con Ford, per ora commerciale e tecnologica, si concentra sulla possibile fornitura agli americani della piattaforma Meb in cambio di know-how sulla guida autonoma.
Ma in questo immane sforzo tecnologico, produttivo e finanziario, c’è un’attenzione parallela, quasi ossessiva, rivolta alla Cina e in parte alla Corea del Sud, dove ci sono i veri concorrenti secondo Dudenhöffer: «Greatwall e soprattutto Geely, che ha capito l’importanza del brand comprando Volvo e diventando azionista di riferimento di Daimler, sono i più temibili. Anche Kia Motors si sta muovendo bene e con rapidità». Una sfida che la sempre ambiziosa Volkswagen potrà vincere con loro o contro di loro.