La Lettura, 31 marzo 2019
L’arte in Arabia Saudita si toglie il velo
Un principe-artista (Sultan bin Fahad), giovani creative senza velo, un ex Palazzo del Governo riaperto per una mostra site-specific, una galleria (la Athr di Gedda) che si sta facendo largo nel mondo, un edificio alla periferia di Riad come atelier per gli artisti, un Banksy arabo e Zahrah Al-Ghamdi che porterà, per la prima volta, il suo Paese alla Biennale d’Arte di Venezia nel prossimo maggio… Anche attraverso l’arte contemporanea, una novità sbocciata all’improvviso da un secolare oscurantismo, l’Arabia Saudita cerca di cambiare sé stessa per cambiare i suoi rapporti con il mondo.
L’Arabia non è da confondere con gli Emirati dove, su penisole artificiali, fioriscono non-luoghi occidentali come hotel a tema, Expo o ipermusei. Nella terra dei wahabiti – uno Stato diventato indipendente dalla Gran Bretagna nel 1927 e unificato in un regno nel settembre del 1932 – il piano «Saudi Vision 2030» voluto dall’arcinoto e arcicontroverso erede al trono Mohammed bin Salman, intende «svegliare» un Paese legato alla tradizione nel suo intimo, popolare, religioso sentire. Il piano punta su istruzione, benessere e cultura con investimenti macroscopici derivanti dal petrolio (che qui sanno non essere una risorsa infinita), e l’arte contemporanea non è che la punta spregiudicata del saif, la spada dei califfi. Qui, da immemore tempo, l’arte è aniconica, calligrafie coraniche spuntano alle pareti delle case di Gedda, la musica è vietata come pure prostituzione, alcool e scommesse…: che ci fa dunque qui una perversione intellettuale come l’arte contemporanea? Che cosa ci fa, qui, il Concettuale? Eppure l’Arabia ci sta provando.
«Ho voluto riaprire questo ex palazzo governativo, che diventerà un hotel, perché da qui è passata la nostra storia», racconta Sultan bin Fahad, principe di famiglia reale e d’alto rango nel neonato ministero della Cultura. Sultan – una sola moglie, che è una briosa «Sozzani» d’Oriente – è uno dei numeri due del principe Badr bin Abdullah, noto per l’acquisto del Salvator Mundi attribuito a Leonardo (450 milioni di dollari sborsati nell’autunno del 2017) e per le trattative con la Scala (tre milioni di euro già versati, e poi rifiutati, per entrare nel Consiglio di amministrazione del teatro). Aperto nel 1943, il Red Palace di Riad era un edificio governativo durante la strage alla Mecca del 1979 dove negli anni sono state prese molte decisioni strategiche della recente storia saudita.
La mostra The Red Palace di Sultan bin Fahad (fino al 20 aprile), curata da Reem Fadda del Guggenheim di Abu Dhabi, racconta proprio la storia moderna del Paese in sequenze narrative che sembrano quelle delle esposizioni di Prada a Ca’ Corner della Regina: lampadari preziosi nelle scatole dell’aria condizionata (To Dust), filmati in piani-sequenza di cene, maschere antigas e banconote finte usate nella Guerra del Golfo contro Saddam, le foto di re Abdul Aziz (1830-1876) che guidò il rinnovamento del Paese, tappeti dissacrati dai neon. «Ho provato a immaginare se questi muri potessero parlare – racconta Sultan —. Ho prestato attenzione alle donne e agli uomini che hanno lavorato dietro le quinte di questo vecchio palazzo, ho pensato agli oggetti rimasti, come le maschere antigas della guerra ancora nelle loro scatole originali».
Sono quattordici stanze di recenti memorabilia, «relitti della moderna storia saudita» perché quelli dei secoli intermedi – come fossero i nostri Medioevo e Rinascimento – non esistono più. Per trovare testimonianze di arte-arte bisogna risalire ai Nabatei, II secolo a.C., e alle loro tombe recentemente scavate nel sito archeologico di Al Ula, ancora rifugio delle vipere.
Il piano «Saudi Vision 2030» prevede l’apertura di un’accademia d’arte per complessivi 9 mila studenti, distribuita su più campus, e di 140 nuove gallerie sparse per il Paese. Nel frattempo a Riad il governo ha messo a disposizione un casermone per atelier d’artisti. Sembrano le aule delle vecchie scuole elementari. Qui, ad esempio, c’è l’atelier di Ahmed Mater, tra i più quotati artisti sauditi. Dirige la Misk Art Foundation, che comprende studi di design. I due cavalli (arabi) di battaglia di Mater sono Evolution of men, in cui si vede una pompa di benzina trasformarsi in un uomo che si sta sparando («puntare solo sul petrolio è un suicidio», dice) e una foto iperrealistica della Mecca dove i fedeli intorno sono chiodi: l’immagine è stata usata dalla ditta di orologi Omega con la quale si è aperta una controversa giudiziaria.
Nella stanza al piano di sopra lavora Seed Gamhawi, che carbonizza le lampadine per realizzare installazioni sull’origine del mondo e prende gessetti colorati per trasformarli in missili. C’è un po’ di «arte di denuncia», se così si può dire, con tutto quell’uso di maschere e di foto della Guerra del Golfo (compresa quella del cormorano imbevuto di petrolio) anche nei lavori di Hamoud Al Ataoui. Sono artisti pronti per Basilea e Berlino con l’intento di raggiungere la fama di Maha Malluh, per ora «l’unica donna-artista araba nota internazionalmente», racconta il gallerista e intermediario svizzero Claudio Scorretti. Pure il principe Sultan ha lo studio in questo edificio: è pieno di vecchi specchi decorati tolti dal Red Palace e dalla Mecca per far posto all’installazione: «Per questo le cornici hanno solo decorazioni floreali di stile quasi giapponese», spiega.
La prima galleria d’arte contemporanea del Paese, che fino a poco fa operava solo in patria ma ora è anche sulle rotte internazionali, è la Athr di Mohammed Hafiz e Hamza Serafi. La casa di Hafiz è un museo più che un appartamento, occidentalissimo, con lampade di Castiglioni e terrazza su Gedda dove si cena senza salamelecchi in piena libertà. Anche qui, come da noi, l’arte contemporanea è scrigno dell’upper class che studia in Europa e in America e va a sciare a Verbier. Quest’anno la galleria festeggia il suo primo decennio, cosa stravecchia da queste parti: «Molti artisti – racconta Hafiz – hanno lavorato qui superando le barriere linguistiche. Abbiamo inviato una sessantina di artisti in varie residenze nel mondo, abbiamo ospitato artisti stranieri, istituito premi e l’anno scorso organizzato la Young Saudi Artist sul modello di Saatchi».
Qui troviamo Reem Al Nasser, il Banksy d’Arabia, che scatta foto alle sue tag e poi le vende a 500 dollari. Ci sono due ragazze post-burqa (lo Stato ha reso possibile che il volto non sia più coperto): sono Ahaad Alamoudi, 26 anni, che presenta un video girato nel deserto dove c’è un tizio con tanto di thobe e kefiah fermata dall’agal (il nastro usato anche per legare i cammelli) «che balla come Michael Jackson che è il mio mito», dice. L’altra è Sara Abdu, che presenta A Kingdom where no one dies, dieci piccole montagnole di terra ocra sagomate, già comprate da un museo di Amsterdam per circa 11 mila dollari: «Ho 25 anni, mio padre è yemenita e mia mamma indiana, sono apolide e la mia arte vuole dimostrare che siamo tutti connessi, uomo e natura, e uomini oltre ogni confine»: è un po’ la versione giovane e politically correct esportata in contromano sulle vie d’Arabia.
Il lavoro più impressionante è Stream More Oceans di Zahrah Al-Ghamdi, l’artista atteso in Biennale. È una parete che sembra di gomitoli bianchi intrecciati (ma è materiale sintetico) che costa settantamila euro: rappresenta i nodi dell’esistenza. «Per Venezia sta lavorando con materie naturali che provengono da Al Ula», dove la terra offre pietre di spettacolari variazioni cromatiche giallocromo, cocciniglia, seppia, celadon…
A Gedda ci sono altre gallerie, come la Hafez Gallery che ha aperto a febbraio. Qui espone Rashed Al Shashai, che prende objects trouvés e li taglia a metà separandoli con buoni effetti sensoriali, specie quando utilizza autobus o abiti da sposa.
Il Saudi Art Council (sponsorizzato da Ubs), in un dimenticabile mall con macchinette per le bibite, finti marmi e interno in simil archeologia industriale, espone anche opere di artisti stranieri: Proximity/ Repulsion del biologo molecolare tedesco Felix Bonowski è una installazione dove i tuoi movimenti condizionano l’apparire e sparire di proiezioni alle pareti; il «britannico» Khalid Zahid ha costruito un ottovolante con carrozze decorate con versetti del corano; il tedesco Niklas Binzberger piega tappeti arabi inamidati in forma di cacciabombardieri.